Verso il Mar dei Caraibi, minatori permettendo!

La nottata è passata tranquilla. Per la Pollita, intendo: questa è stata la prima notte da quando siamo partiti, che la passa fuori. L’albergo non ha il garage, per cui l’ho parcheggiata a fianco dell’ingresso con il bloccadisco.

Piove, piove, piove. Ancora adesso, tutta la notte, ieri, l’altro ieri, da sempre. Se non altro, parto con la cerata già messa, una rottura in meno da fare.

Come immaginavo, visto che gli ultimi km di ieri erano stati in caduta verticale, oggi sono in ascesa altrettanto verticale. Abbastanza rapidamente, guardo il mondo dall’alto in basso.

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Magnifico panorama, incorniciato da un gran numero di avvoltoi, però inizio ad essere stanco delle montagne e del freddo. Adesso cerco pianura e caldo.

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Ricomincia il valzer della montagna, su e giù per decine di km.

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Pensavo di aver toccato il fondo, come strada rotta e dissestata, nella tratta da Ipiales a Popayan. Ma si sa che al peggio non c’è mai fine, ed eccomi a gustare una saporita Medellin – Puerto Valdivia, 180 km di masochismo, solo per stomaci molto robusti. E’ una sequenza ininterrotta di buche, rattoppi, curve a gomito, lavori in corso con tratti sterrati non segnalati, pezzi franati; il tutto molto stretto. Per cui è anche un continuo evitare i musi spropositati dei TIR che si allargano quel minimo per fare la curva.

Da Puerto Valdivia in poi la strada atterra in una vallata a fianco di un fiume che diventa via via più grande e limaccioso. Atterrare nel vero senso della parole, perchè si passa da quasi 3000 metri a poco più di 100, mentre la temperatura, da freddo gelida diventa calda umida.

Mentre guido, con la coda dell’occhio noto un torrente rosso alla mia sinistra. L’acqua è rossa, impressionante.

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Così come colpisce quando i due flussi di acqua si incontrano, quello del torrente e quello del fiume. Proseguono senza mescolarsi per molti metri, poi lentamente si uniscono. Metafora della vita.

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Fiancheggio il fiume godendomi la vista, la vegetazione e i fiori tropicali, le capanne dipinte e decorate, la gente per strada e la musica, quando entro in un villaggio, uno come tanti incontrati finora.

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Solo che qui la gente è tutta in mezzo alla strada e corre. Nella direzione opposta alla mia, cioè sto andando verso il punto da cui loro scappano. Rallento, poi mi fermo. Nessuno fa caso a me né mi dice nulla. Però vedo tutti, ma proprio tutti, bambini, vecchi, donne, uomini e ragazzi, scappare portando carretti, biciclette e tutto quello che hanno con loro. Chi si infila nelle case, chi corre ancora più indietro, più lontano.

Chiedo informazioni e mi dicono che c’è stato un morto. Ancora non capisco tra chi, se c’è uno scontro tra due gruppi, una rissa o altro.
Chiedo ancora, ma ripetono il fatto del morto, sono sconvolti.

“Non si passa, torna indietro!”

“Ma devo andare a Cartagena!”

“Vai da qualche parte e riprova dopo …”

Prima esplosione, forte.

“Quando?”

“Stasera o domani”

Altra esplosione, come la prima.

Seguo l’esempio di tutti e torno indietro di 500 metri. Ci sono tanti motorini e alcune macchine. Passiamo davanti a dei soldati e poliziotti che non dicono nulla, così come non mi avevano detto o segnalato nulla quando ero passato due minuti fa.

Parcheggio dietro un’auto a lato della strada, scendo e chiedo al signore seduto al posto del passeggero.

“Sono i minatori, stanno protestando”

“C’è stato un morto, mi hanno detto”

“Sì lo so, è un operaio che protestava che è stato travolto da una camionetta della polizia”

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Mi racconta che questa zona è piena di minerali e c’è tanto oro. Ci sono molte miniere artigianali, dove lavora la gente del posto, ci campano da anni, ma ora il governo ha vietato queste miniere, con la scusa che ci sono guerriglieri delle FARC infiltrati che si sovvenzionano in questa maniera.
Il governo vuole distruggere i macchinari che vengono utilizzati per l’estrazione, dicendo che non sono artigianali, ma industriali. E ovviamente ci sono le multinazionali interessate a queste miniere e a fissare i prezzi, vendendo poi l’estratto per conto loro.

Si uniscono le persone di altre auto, c’è uno che ha il fratello che lavora a Fabriano, facciamo tutti amicizia, tutti uniti da questo fuori programma, in attesa che si possa passare di nuovo.

Mentre parliamo, sfrecciano prima molte moto della polizia, tutte con due persone a bordo. Senza casco, il passeggero con uno o due mitragliatori. Poi una camionetta dell’esercito, piena zeppa di militari in tenuta da guerra completamente nera. Inquietanti.
Un elicottero sorvola la zona.

Parliamo del mio viaggio e della mia preoccupazione per il Venezuela e la sicurezza.

“No, ma è tranquillo! Più tranquillo della Colombia! Là queste cose non accadono!”

“Ci sei stato? Quando?”

“Poco tempo fa, qui”, e mi indica un paesino minuscolo a pochi km dal confine.

“E poi?”

“No, solo qua. Ma è tranquillo, non preoccuparti. Evita solo Caracas, lì sì è pericoloso”

Parliamo ancora un po’, poi arrivano due ragazzi su uno scooter. Si rivolgono direttamente a me:

“Vieni, andiamo, si può passare, tu devi proseguire no?”

Li riconosco, ci siamo sorpassati un po’ di volte nei km precedenti, mi fermavo a fare una foto, poi li superavo e così via. Hanno visto che sono straniero e che devo proseguire.

“Ok, saluto e arrivo!”

“Fai in fretta, andiamo insieme e non metterti assolutamente il casco, devono vedere che sei straniero!”

Mi fanno strada, li seguo. Passiamo alle spalle del villaggio, su stradine sterrate e piene di fango. Chiedono informazioni alla gente seduta fuori dalle case, su dove riprendere la strada principale per superare il blocco dei minatori e della polizia.

Proseguiamo così per alcune centinaia di metri, tra case e fango, persone cani e altri animali, poi riprendiamo la principale. Ci giriamo indietro e vediamo i militari e il giallo fluorescente dei poliziotti. Sembrano da soli, ma non guardiamo attentamente, acceleriamo e ci allontaniamo.

RIcomincia la splendida campagna, ignara di tutto. Dopo una quindicina di km, raggiungo Caucasia. Di nuovo vedo una fila di motorini con le persone che guardano tutte dalla stessa parte, così come tutte le altre persone a piedi o in auto. Guardano tutte verso l’altra estremità della strada.

Capisco subito e mi avvicino a un ragazzo col motorino.

“C’è una protesta anche qui?”

“Sì, è bloccato, ma forse piano piano si passa … solo le moto, le macchine no”

“Io vengo dal paesino prima, c’è stato un morto là!”

“Ah sì? Comunque qui se vai piano dovrebbero farti passare”

“Ok”

“E togliti il casco, mi raccomando!”

Messaggio ricevuto.

Vado pian piano, seguendo uno scooter. Scopro così che il blocco della strada l’ha imposto la polizia. Passiamo a fianco di un gruppo di poliziotti e di militari. Non ci filano. Della protesta, vedo solo un mucchietto di cenere fumante.

Sfilo davanti ai militari, poi proseguo sulla strada principale per uscire dal paese. Attorno a me ci sono molti motorini che sfilano e sfrecciano.

Ad un certo punto mi affiancano due ragazzi su un motorino:

“Sì, ma devi sbrigarti! Ci sono altri blocchi dopo! Se hanno fatto passare qui, forse fanno passare anche là, ma devi sbrigarti, altrimenti chiudono e devi aspettare chissà quanto!”

Accelero ed arrivo al secondo blocco della polizia, all’uscita dal paese.

Qui stavolta non si passa, hanno bloccato da parte a parte e poliziotti e militari sono distesi su tutta la larghezza della strada.

Mi fermo a pochi metri dal blocco, affiancando due su un motorino.

“C’è un modo per aggirare il blocco?”, chiedo a uno dei due.

“Sì, seguici, stiamo andando anche noi”

“Mi hanno detto che c’è stato un morto!”

Lei mi guarda con occhio duro e rettifica: “Veramente i morti sono stati 7”

Mi gela e non dico altro.

Appena imbocchiamo la stradina laterale, ovviamente senza casco, sento chiaro e netto uno sparo. Acceleriamo all’unisono sia io che i due sul motorino.

Altra parallela alla strada principale, poi nuova deviazione. Sbuchiamo una trentina di metri dopo il blocco della polizia.

Alla mia altezza, vedo un militare armato e in assetto da assalto a fianco della porta di ingresso di una delle case dei contadini, a una cinquantina di metri dalla strada. In campo aperto, e cioè tra la strada dove mi trovo io e la casa del contadino, c’è un soldato. Senza elmetto nè giubbotto antiproiettoli, solo con un grande mitragliatore in mano. Si sta avvicinando con grande circospezione alla casa

Con i due ci diciamo che è meglio andarsene, quando si sente un altro sparo. Dagli specchietti vedo tre moto della polizia venire a grande velocità verso di noi. Io, per evitare problemi e spiegazioni, accelero e me ne vado. Vedo che si sono fermati dai due ragazzi. Immagino sia per dirgli di andarsene da lì, è pericoloso.

Accelero e mi allontano il più rapidamente possibile. Dopo pochi km, vedo una fila lunghissima di camion e auto. Tutti fermi per il blocco. Da questo lato il blocco è ben organizzato, la polizia ha fermato tutti e dà spiegazioni.
Da dove sono arrivato io, invece, non c’era nessuno e sono potuto arrivare, ignaro, a pochi metri dagli scontri. Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi fatto una foto in meno e foss arrivato cinque minuti prima al primo blocco, dove avevano appena investito e ucciso una persona.

La strada scorre bene, ma tra strada pessima di stamattina per uscire da Medellin, blocchi e altre soste, sono ancora molto lontano da Cartagena.

Mi godo il tramonto, poi con l’ultima luce del giorno entro a Sahagun.

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Sono in stanza ad asciugarmi dalla doccia, quando sento una sequenza di esplosioni. Poi dopo qualche secondo, una nuova esplosione, secca, forte. Sarà la suggestione della giornata, ma mi preoccupo. Ok, basta restare chiusi in camera, però non è tranquillizzante.

Dopo un quarto d’ora dalle esplosioni, vado a chiedere al ragazzo della reception;

“Che è successo, cos’erano quelle esplosioni??”

“Nulla, dei fuochi artificiali, qui è tranquillo, non preoccuparti!

Vado in piazza a mangiare una cosa, è da stamattina che sono a digiuno. Attacco bottone con due signori al tavolo a fianco. Gli racconto il viaggio e tutto il resto. Quando gli dico che pensavo che le esplosioni fossero proiettili, a momenti cadono dalle sedie per le risate!!

“Nooo qui è tranquillo!”

“Ok, però oggi ci sono stati 7 morti …”

“Otto”, precisa, “però a Caucasia, Antioquia …” e fa un gesto con la mano come a dire a Pechino.

Chiacchieriamo per un’oretta, poi torno in camera a riposare.

Domani, mar dei Caraibi!! Minatori permettendo …

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