Che non è quella di Mao durante la rivoluzione cinese, ma la mia attraverso il Venezuela per arrivare il prima possibile in Brasile.
La notte è funestata da una scolaresca in gita che fa un casino del diavolo non so fino a che ora. Non gli dico nulla perchè alla loro età ero anche peggio e ora che sono passato dall’altro “lato della barricata”, anagraficamente parlando, mi rendo conto di quanto fossi fastidioso per il prossimo. Ma a quell’età non ci si pensa.
Il risveglio poi è ancora peggiore: tirando la tenda per far entrare la luce nella stanza, si sgancia il bastone di metallo che la sostiene, finendomi sulla fronte. Nulla di meglio per svegliarsi che una robusta randellata!
(sì, è sangue quello in fronte, ne uscirà altro e si formeranno due bei “ficozzi” dolorosi. Non so se sono più intontito dal sonno o dalla botta in testa!)
Decido di partire subito, senza aspettare la colazione dell’albergo che inizia alle 8.
Mi fermo nel primo benzinaio che incrocio, con l’addetto alla pompa che è di una simpatia incredibile: scortese, arrogante e maleducato. Per circa 15 litri di benzina, pago un bolivar e mezzo, qualcosa come 2 centesimi di euro. Quella monetina inutile che tutti abbiamo in tasca e che se cade nemmeno raccogliamo, qui vale 15 litri di benzina.
Sulle strade ci sono diversi tombini scoperchiati e i buchi neri si affacciano, ampi e minacciosamente neri, vere e proprie trappole. Non oso pensare cosa succederebbe se ci finissi dentro con la moto.
E quando non sono tombini scoperchiati, sono delle buche apocalittiche, enormi e improvvise!
Prendo l’autostrada ed in breve mi ritrovo sul lungo ponte che scavalca lo stretto che unisce il lago di Maracaibo e il Golfo del Venezuela. E’ molto lungo ed è spettacolare per la vista ampissima che offre sui due lati, sui diversi blu del mare e del lago e per l’imponente opera di ingegneria.
In Venezuela l’autostrada non si paga. Ci sono ancora i caselli e anche alcuni casellanti che passano la giornata seduti su una sedia di plastica a guardare l’infinito, però non si paga. Diversi caselli sono parzialmente smontati, ma non li hanno tolti del tutto perchè la polizia li usa come punti di controllo.
Poco dopo il ponte mi fermo per un’agua di coco: questa è la mia colazione. Parlo con la signora, che dopo i convenevoli iniziali, mi chiede diretta:
“Bè, hai visitato tanti paesi qui in Sud America: che ne pensi del Venezuela?”
Non so quanto sbilanciarmi, non vorrei offenderla quindi resto sul vago:
“Bè è un paese particolare …”
“Sì, la situazione è molto complicata … molto!”
“Non c’è molta sicurezza …”
“Per niente! E l’economia va malissimo!”
“Ma Maduro, che fa?”
“Uhf! Maduro è il peggio che potesse capitarci dopo la morte di Chavez!”
“Pensavo che la Colombia fosse pericolosa, ma qui è molto peggio!”
“Una volta la Colombia era molto pericolosa e i colombiani si trasferivano qui. Adesso è il contrario, una pena terribile!”
Parliamo ancora un po’, poi finiamo di nuovo sul mio viaggio:
“Non arrivare fino a El Tigre, è molto lontano, troppo! Non viaggiare di notte … adesso fermati a Barquisimeto, poi domani parti per El Tigre”
Ok, non viaggio di notte, ma Barquisimeto è troppo vicina! Punto a Acarigua o a San Carlos.
Il caldo aumenta di nuovo a dismisura, la vegetazione cambia rapidamente, per lunghi tratti è di nuovo bassa, ricorda la savana, poi torna boscosa. Lungo la strada, decine di commerci di ogni tipo, mentre continuano a sorpassarmi questi macchinoni stravecchi e scassatissimi. Ora che ci penso, a Cuba sono tenuti molto meglio, meno arrugginiti e in decomposizione rispetto a quelli che vedo qui.
Penso a come tutti, prima o poi, siano finiti a parlarmi del prezzo della benzina:
“E’ praticamente gratis!”, mi dicono con un sorriso di felicità.
Mica tanto gratis, il prezzo che pagano è quello di avere infrastrutture e servizi che cadono a pezzi, un sistema produttivo paralizzato, una disoccupazione molto elevata, la povertà diffusa, la violenza fuori controllo. Non che tutto ciò derivi dal non far pagare la benzina, ma è il tipo di economia adottata, quindi inclusa la benzina praticamente gratuita, ad aver prodotto questo sfacelo.
Le strade sono funestate di dossi di rallentamento, quasi tutti molto alti e verticali. Sono ovunque: in corrispondenza degli incroci, degli svincoli, delle curve pericolose e così via, indipendentemente dal tipo di strada, anche in pieno rettilineo di una strada a 6 corsie ce ne possono essere 3 di fila, perchè magari c’è l’ingresso di una caserma. Sono sempre in sequenza, almeno 3; in più occasioni ne ho contati 8 di fila, a distanza di 100 metri l’uno dall’altro. In un paio di occasioni erano 10. Una tortura!
La strada tra Barquisimeto e Acarigua è molto bella, di campagna dai colori brillanti e alcuni gruppi di palme che ondeggiano al vento.
Sono le due passate da poco quando allo svincolo per San Carlos mi fermo per un’altra agua de coco. Il mio pranzo, praticamente.
Arrivo a San Carlos presto, intorno alle 16:30. Potrei tranquillamente guidare per un’altra ora, ma le città successive sono minuscole, ho paura di non trovare il meccanico per il tagliando dei 12mila km alla Pollita o che quello che c’è sia troppo impegnato per darmi retta.
Un albergo è chiuso, la città è deserta. Per fortuna ne trovo un altro, ovviamente ha posto.
“400 bolivar”, meno di 10 euro.
“C’è la colazione?”, provo a chiedere immaginando la risposta.
“Non c’è personale, siamo solo io e il guardiano del parcheggio in tutto l’albergo!”, esclama quasi disperato.
Pago la notte e mi accorgo di essere rimasto solo con 8 bolivar. Non ci pago nemmeno un’agua di coco, ma comunque non la vorrei come terza della giornata, passata praticamente digiuno.
Nè il portiere, nè il guardiano cambiano i dollari. Vado a fare un giro. Tutto è chiuso, sembra una città fantasma. Non solo tutte le saracinesche sono abbassate, ma in giro non c’è anima viva. Le strade sono deserte in tutta la loro lunghezza, nulla si muove.
Trovo solo tre panetterie aperte: anche loro non cambiano.
Mi rassegno a restare digiuno e vado a fare una passeggiata nel centro per fare qualche foto. Molte mura sono coperte di scritte inneggianti a Chavez e Maduro.
Da quando sono entrato nel Paese vedo la loro immagine ovunque: negli uffici pubblici, lungo le strade su dei cartelloni immensi oppure nei murales. Un discreto culto della personalità.
Mai come Turkmenbashi in Turkmenistan, però la strada è quella giusta, con un po’ di impegno possono arrivarci.
Le rime degli slogan sono imbarazzanti: Maduro seguro e simili.
Mi aggiro per i vicoli deserti del centro, a caccia di manifesti e murales, quando vedo una famiglia fuori dalla porta di casa: moglie e marito e due donne che sembrerebbero le figlie. Chiedo all’uomo se sa chi potrebbe cambiare dollari. Non lo sanno.
Pensavo fosse un’attività più diffusa, invece pare che sia roba da gente poco pulita. Il fatto è che il tasso ufficiale in banca è 4 volte più basso, troppo!
Mi dicono quindi che non sanno chi può cambiare i soldi, poi mi chiedono:
“Ma che ci fai qui a quest’ora? Non sai che ti possono rapinare?? Torna subito il albergo e resta lì!”
Non riesco a rilassarmi, ogni due secondi c’è uno che mi terrorizza con rapine e aggressioni. E giù di nuovo a fare un elenco delle disgrazie accadute per la strada ad amici e parenti.
“In periferia no perchè è isolata, qui che è il centro no, perchè non c’è nessuno … terribile!”
“Il problema è che oggi non c’è nessuno per strada e tu sei anche da solo! Ti rapinano sicuramente, torna in albergo! Sennò ascolta, chiamo mio fratello, lui è stato anche in Italia, conosce tutti in città, può darti una mano!”
Lo chiama e iniziamo ad aspettarlo, sempre sul marciapiede.
Parliamo un po’ della situazione del Venezuela, “molto complicata”, riconosce. Anche lei non sopporta Maduro, è un ignorante incapace.
Dopo una decina di minuti arrivano i suoi due fratelli su una specie di furgone. Le sorelle gli spiegano che non ho soldi, devo mangiare perchè da stamattina sto con solo due aguas de coco, devo cambiare dei dollari e che domani mi serve un’officina per fare il tagliando alla moto.
Lasciano ai familiari molti polli appena uccisi e spennati (“abbiamo un allevamento in campagna!”), per fortuna la Pollita è in albergo e non può vedere la mattanza 😉
Salgo in auto con loro, mi portano in un fast food dove compro un bel panino con le patate fritte e da bere, una specie di Inca Kola. Un altro nome, ma il sapore è molto simile.
Però non mangio lì, mi portano nel negozio del fratello maggiore, Ricardo. Ha una rivendita di Herbalife in un piccolo prefabbricato che ha costruito lui stesso, mi confida orgoglioso:
“Uso Herbalife da sette anni, guarda qua!” e si gira facendomi vedere quanto sta bene ed è in forma, “ed ho appena compiuto 40 anni!”. Siamo praticamente coetanei, ma effettivamente sembra molto più giovane.
Sia lui che il fratello sono cattolici,del cammino neo catecumenale e sono stati in pellegrinaggio a Roma due volte, mi fanno vedere le foto.
Riprendiamo a parlare di politica, entrambi non sopportano Maduro. Si lamentano anche del costo della vita. Miguel, il fratello, è vigile del fuoco:
“Qui in Venezuela lo stipendio minimo è di 2900 bolivares al mese. Io ne guadagno 3300 perchè ho un grado un po’ più alto”, praticamente l’equivalente di 110 dollari, cioè 80 euro, “sai quanto costa ad esempio quell’aria condizionata?” e indica il condizionatore sopra la porta, che provvidenzialmente manda un po’ di frescura per dissipare il caldo umido che attanaglia tutto.
“No, quanto?”
“15mila bolivares, lo stipendio di 5 mesi!”
Considerando che lui prende poco più dello stipendio minimo, più o meno è come se in Italia costasse 6mila euro.
“In Italia quant’è lo stipendio minimo?”
“Non esiste un vero stipendio minimo …”
“Quello minimo che di solito guadagna la gente … 3000 euro al mese?”. Mi è già capitato diverse volte in passato, che la gente nei paesi molto poveri favoleggi su guadagni esorbitanti.
“Quanto?!? No, è molto meno, diciamo 1000 euro, ma c’è tanta gente che guadagna anche meno, tipo 800 euro al mese”
“Qua sarei un re con 800 euro al mese!”
“In Italia riesci a stento a sopravvivere, se poi devi pagarti l’alloggio allora non sono sufficienti”
Mangio il panino nel suo negozio mentre proseguiamo a parlare, poi andiamo a cercare il meccanico. Lo troviamo, ci diamo appuntamento domani per le 8:30. Speriamo bene!
Vado a letto presto, sono a pezzi. Domani arrivo fin dove riesco, dipende dall’orario a cui mi restituisce la moto!
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Inizia bene la giornata! 😉 Almeno è la prima volta che riesci a partire prima delle 8!
E’ un sollievo leggere i tuoi racconti, soprattutto perché mi rincuorano che sei ancora….integro e non ti hanno rapinato o peggio. Certo l’attesa prima del prossimo articolo è un po’ snervante. Ma in che paesi violenti ti sei cacciato?! Buona fortuna 🙂
Il Venezuela é “intenso” da quel punto di vista … Spero che il Brasile sia meglio, perchè questa tensione continua non mi piace assolutamente!!