Relax sulle rive del Mekong

Mi sveglio alle 4 coperto di sudore per il mio solito errore di voler spegnere l’aria condizionata. 

Peccato perché proprio oggi ho la sveglia alle 5 per andare a vedere il rituale delle offerte ai monaci, quindi sarò ancora più distrutto del previsto.

Arrivo nella strada dove dovrebbero sfilare i monaci che sono ancora solo.

O meglio, solo con la “fabbrica delle offerte”, ossia una serie di persone che ha allestito degli sgabellini su dei tappeti da preghiera,  dove gli offerenti si siedono con davanti dei cestini composti in maniera diversa a seconda di quanto si vuole spendere.

Il kit più ricco include un cestino pieno di confezioni monodose di biscotti e crackers e un contenitore di bambù pieno di riso (lo sticky rice, come lo chiamano, riso colloso, per via di come i chicchi rimangono attaccati tra loro, tanto che é possibile mangiarlo staccandolo a pezzetti, come si fa con la mollica del pane).

Una signora mi aggancia offrendomi il kit “intermedio” a 30mila kip. 
“10mila?”, ribatto senza troppa convinzione. 
“20mila”, chiude lei.
Ma comunque non ho intenzione di restare su uno sgabellino tutto il tempo, per cui la saluto e vado verso il tempio più vicino. 

Dopo qualche minuto iniziano ad arrivare decine di persone, chi sui furgoni, chi coi tuk-tuk, chi a piedi.
Mi ritrovo a fare un pensiero blasfemo: ho ‎una fame bestia e le offerte per i monaci le mangerei in un boccone!

Ormai é l’alba: si spengono i lampioni, iniziano a risuonare i tamburi e lunghe file di monaci scalzi sfilano per la strada, fermandosi davanti a ciascun offerente l’istante necessario affinché questo possa infilare la sua offerta nella sporta appena aperta che il monaco gli porge.

Ciascun monaco per le decine e decine di offerenti. Ciascun offerente per le decine e decine di monaci.
Finisce tutto abbastanza rapidamente, 10/15 minuti.

Mi soffermo a pensare ancora un po’ sul rituale che ho appena visto, a metà tra la ragione e il sonno. Poi mi incammino verso la guesthouse per dormire ancora un paio d’ore, prima di dover cambiare posto per la notte, visto che mi hanno buttato fuori.
Mentre torno, incrocio una stradina secondaria dove, con mio grande stupore, vedo i monaci tornare. E stavolta, a fare le offerte, ci sono le persone del luogo.

L’emozione adesso é molto più forte, la cerimonia più autentica. Si vedono donne anziane, ma anche più giovani, fare l’offerta con più trasporto, vivono il momento più intensamente. 

E questo, mi viene da pensare, tutte le mattine. Come chi fa meditazione ogni giorno, loro iniziano la loro giornata con 30/40 minuti di rituale dedicato ai monaci della loro religione, offrendo un piccolo canestro di riso.

Ci sono anche dei cestini molto più grandi, dove i monaci lasciano parte del riso che hanno ricevuto. Forse é per i bisognosi.

Alle 6:30 é davvero finita, i  monaci sono tutti rientrati nei rispettivi templi.

Dormo ancora un paio d’ore, poi lo strazio del cambio albergo.

Riprendo le cose che avevo lasciato da lavare: alcune sono ancora bagnate, altre puzzano perché sono state lavate, ma asciugate male, altre ancora puzzano perché non sono mai state lavate. Pessimi.

Esco lasciandogli i bagagli. Così leggero, voglio cercare da dormire e una lavanderia. Oltre a vedere le ultime cose in città e godermi  l’ultima giornata.

Incredibilmente risolvo tutto in 5 minuti d’orologio. La guesthouse a fianco ha posto a 20 dollari a notte, con stanza più grande e colazione (!) e a fianco ancora c’è una lavanderia.

Mi affretto per andare alla biglietteria del museo nazionale. Chiude alle 11 e le visite alle 11:30, ma almeno vorrei togliermi di mezzo il fastidio di fare il biglietto.

Arrivo alle 10:50, ma la biglietteria é già chiusa.
Mi innervosisco, c’è il classico militare comunista arrogante che ho visto mille volte nei vari paesi dell’ex Unione Sovietica che a malapena mi rivolge lo sguardo dicendo “Close”, mentre gli faccio segno che é ancora presto.

Vorrei insistere, come facevo ai tempi dei viaggi in Russia, in cui li prendevo letteralmente a male parole, ma poi mi trattengo. Non cambierebbe né lui, né la situazione. E probabilmente cambierebbe la mia giornata. In peggio. 

Mi chiedo come sia possibile aprire un museo nazionale in un città patrimonio Unesco con valanghe di turisti, ma poi penso alle varie situazioni assurde che ho vissuto durante il  mio recente giro in Campania, con musei chiusi o aperti mezza giornata o solo in alcuni giorni della settimana, con le chiavi affidate a privati.

Ne approfitto per fare il punto della situazione seduto sulle belle panchine vista tempio alla base della collina sacra.

Cerco di pianificare i prossimi giorni, sempre sperando che le strade e il tempo siano decenti.
Decido di andare a vedere qualche altro tempio che ancora non ho visitato.

Noto che i monaci stanno riparando in alcuni casi, costruendo ex novo in altri, delle decorazioni a forma di drago e altri animali, poi delle lanterne, delle stelle e così via.

Sicuramente si tratta della festa di cui ho letto sulle guide, che cambia di giorno ogni anno, ma cade comunque a ottobre.

Purtroppo però, a chiunque chiedo, non riesco ad avere risposta, perché non parla inglese.

Pranzo con una montagna di frutta, sempre con la guida sottomano per sbrogliare la matassa dei prossimi giorni.


Altro giro, altri templi, altri pezzi di città che mi cattura sempre più con la sua atmosfera rilassata e magica di mille elementi: i due fiumi che la abbracciano, la vegetazione tropicale che la abbellisce e la profuma, le eleganti abitazioni, il misticismo dei monaci, la tranquillità dei templi, la varietà e bontà del cibo, i sorrisi della gente, la magia delle tradizioni.


In un tempio, trovo una ragazza inglese che tiene una lezione di lingua a 5 giovani monaci. Ne approfitto per chiedere informazioni sulla festività che stanno preparando. Purtroppo ci sarà tra due settimane, che peccato!

Si è fatto tardi e vorrei prendere un tuk-tuk per tornare al museo nazionale, ma anche con i guidatori, che teoricamente tre parole di inglese dovrebbero conoscerlo, é impossibile.

Ripeto dieci volte “National museum”, indicando il nome in lao scritto sulla guida e provando a pronunciarlo io, nel caso non sapessero leggere i caratteri latini, ma niente.

Al decimo tentativo, dice “Aah ok!” e parte.
Prende la direzione giusta, poi quando é quasi arrivato, si ferma e chiede a un passante, che chiede di nuovo a me “dove vuoi andare?”
“National museum” e ripeto anche il nome lao. Il tizio dice qualcosa al guidatore che esclama “Aaaahh !!” e riparte, depositandomi finalmente davanti al museo.

Tutto questo in una città dove, che io sappia, c’è un solo museo, questo.

Poco prima dell’ingresso, sento una guida del posto spiegare in francese la storia del museo a un gruppo di turisti.

Incredibile quanto mi manchi sentire parlare francese. Mi fermo ad ascoltarlo per puro piacere … e accidentalmente vengo a sapere che anche in Laos gli elefanti sono praticamente estinti e che sono rimasti in pochi esemplari solo in una zona molto remota del paese.

Il museo nazionale non è altro che la ex residenza del re, destituito quando i comunisti hanno preso il potere negli anni ’70. 

La sala del trono é riccamente decorata in mosaici come una delle pagode del tempio Xieng Thong.


Le altre stanze sono lussuose, ma nemmeno troppo. Ovviamente, rapportato alla condizione di povertà del Laos, sono sontuose di lusso sfrenato.
Anche qui vige il divieto di foto e ci sono molti guardiani a vigilare, ma essendo molto vasto, riesco a sfuggire ogni tanto e scattare di nascosto.

Il colmo é raggiunto quando trovo il divieto di fotografare anche nel piccolo museo delle auto storiche della  casa reale !

Dopo il museo, prendo un altro tuk-tuk per andare alla Croce Rossa. Pare sia famosa per i massaggi!

E in effetti la signora mi distende con decisione ogni singola fibra muscolare, favoloso! É madre di due bambini pestiferi che non fanno altro che entrare e uscire tra le varie tende che separano i materassi dove si stendono le persone. 
A una certo punto, ci mettiamo a parlare:

‎”Sei in viaggio?”

“Sì.”

“Da solo?”

“Sì.”

“Buona fortuna. Quanti giorni ti sei fermato a Luang Prabang?”

“Tre.”

“Domani parti?”

“Sì.”

“Per dove?”

“Ancora non lo so, sto viaggiando in moto.”

“Buona fortuna per il tuo viaggio.”

“Grazie, ne ho bisogno!”

Stavolta per tornare voglio vedere il crepuscolo sull’altro fiume, il Khan. Mi soffermo a guardare in lontananza dei bambini che giocano su un tronco caduto in acqua. Si arrampicano per tuffarsi, si siedono sopra per ridere e scherzare. Una bella immagine di serenità. 

Ci sono lunghe file di auto con targa cinese. Probabilmente una di queste carovane é quella che ha affittato tutte le nove stanze della pensione dove stavo.

Prima di arrivare, incrocio una coppia di sposi sul lungofiume del Mekong. Sono abbigliati alla occidentale. Sarei curioso di vedere, invece, un rito tradizionale di qui.

A proposito, vado a prendere le mie cose per spostare nella nuova guesthouse, sognando di bere, appena finito,  un cocco godendomi l’ultimo tramonto a Luang Prabang. 

Porto i centomila sacchetti e borse, il casco e tutto il resto sul marciapiede, prendo la moto dal retro della guesthouse e… non parte !

Batteria completamente a terra! E in quell’istante inizia anche a piovere a dirotto ! 

In pochi secondi i miei sogni di relax e bellezza svaniscono.

Inizio ad accanirmi sulla pedivella, alla fine parte. Ma la pedivella, con la frequenza con cui si spegne moto, non é praticabile. Perderei ore e litri di sudore!
Con la moto accesa, porto tutto nella nuova guesthouse e mi tuffo sotto la doccia.

Prima di andare a cena però, voglio sapere ‎se la batteria si ricarica. Così domani mattina saprò già se devo cercare un meccanico oppure se posso partire.  Siccome ha smesso di piovere, voglio fare un giro per vedere controllare.

Corro in camicia e pantaloni di lino, sandali, senza casco e ovviamente a luci spente lungo il Mekong. Un fulgido esempio di motociclista maniaco della sicurezza.  

A un incrocio la moto si spegne con il classico “CIUFF!” dei monocilindrici. Ho fatto troppa poca strada, forse tre km. Con un brivido premo il pulsante dell’avviamento elettrico e… con molta poca forza, ma riesce a partire!
Quindi la batteria si carica, perfetto! Era quello che volevo sapere.

Ne approfitto per andare a cena e tornare in albergo abbastanza presto.

E domani… non ho ancora deciso la meta finale, ma vorrei prima visitare un villaggio qui vicino dove lavorano la seta e poi delle grotte sacre. 

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Dal fiume alle cascate

Mi sveglio sentendo il rumore delle auto sull’acqua. 
Apro la finestra e ho la triste conferma : non é per via della pioggia di stanotte, ma… sta piovendo – adesso – a dirotto!
Aveva ragione il tipo di ieri del giro in barca, che oggi avrebbe piovuto. Che sia la sua vendetta per averlo abbandonato ieri?

Questo Nord meno piovoso mi convince poco… devo decidere cosa fare per i prossimi giorni, dove andare.
Comunque, ho in programma la visita al museo nazionale, quale giornata migliore. ‎
Quando esco, piovviggina. Faccio colazione in uno dei mille ristorantini lungo il Mekong.  

Distendo sul tavolo le cartine, apro le guide e  comincio a guardare dove potrei passare.


Le strade del Laos non offrono molte possibilità. O sono cattive o sono pessime.
‎ Nei giorni scorsi ha piovuto, probabilmente piove da giorni o settimane, le piste sono senz’altro uno scivoloso incubo di fango.

Inizio a propendere di cassare tutta la parte più a est, difficilmente raggiungibile se non su piste.

Forse vado ancora un po’ a nord verso la Cina, poi piego a est verso il Vietnam e poi scendo.


Anche se piove, se la strada ha un po’ d’asfalto, si riesce a fare senza troppi problemi. Di sicuro devo calcolare bene i tempi e prevedere medie di 40 km/h, non di più.
Vado al museo nazionale, ma lo trovo chiuso. Ha degli orari assurdi, peggiori di quelli belgi! Dalle 8:30 alle 11:30 e dalle 13:30 alle 16:30. Carpe diem!

Anche il teatro nazionale che dovrebbe dare gli spettacoli ogni due giorni, non si sa perché in questi giorni é chiuso.
Decido di arrampicarmi sulla collina sacra che si erge proprio di fronte al museo nazionale.

All’inizio della ripida scalinata, vedo una freccia che indica verso destra. Senza capire cosa indica, la seguo e mi trovo di fronte al più bel tempio visto fino a oggi. 



Decrepito, intarsiato con misura, senza sfarzi eccessivi e con l’interno magnificamente affrescato.


Su un tavolo ci sono, lasciati a sé stessi, degli acquarelli su carta artigianale, con il prezzo e una casetta dove depositare i soldi. 

La salita sulla collina sacra é dura: ripida, lunga, soffocata dal caldo umido. Quando arrivo in cima, mi asciugo il sudore dal collo e dal viso scuotendo poi le mani, come quando si toglie con le mani dell’acqua versata sulla tavola.

In cima alla collina c’è una vista molto ampia sulla città e sui due fiumi che si uniscono a nord della penisola dove sorge il centro storico.


Naturalmente c’é anche un tempio.


Quello che mi stupisce, rispetto al rigore dei luoghi di culto cristiani, musulmani e penso anche ebraici, é l’atmosfera rilassata che regna: le persone, se non meditano o pregano, parlano tra loro, se capita ridono… come una casa, praticamente. 

A fianco della parte principale dove sono disposti tutti i Buddha del tempio, si trova un altarino con  una serie di cassetti numerati con dei biglietti all’interno. 

Funziona così : il fedele prega, esprimendo un desiderio o un dubbio, poi agita un recipiente con dentro dei bastoncini numerati e dopo qualche secondo ne pesca uno e legge il biglietto corrispondente al numero.


Purtroppo non ho modo di sapere cosa c’è scritto sui biglietti, ma immagino una qualche ispirazione per il fedele, per capire cosa fare o attendersi.
Dopo aver letto il biglietto, il fedele ringrazia pregando e lascia un’offerta.
Scendo dalla collina e passaggio per il viale centrale, tappezzato di botteghe di souvenir, in genere di buona qualità. 


Entro in un paio di negozi, finché non mi fermo nel negozio di un tipo che si lamenta del fatto che non ci sono turisti : 
“Solo cinesi ! Ma quelli non comprano niente ! ”
Forse niente di quello che ha lui e poi ci sono tanti altri turisti. Comunque, per incoraggiarlo, gli compro una cosina.

Raggiungo la fine del tratto pedonale con tutti i negozi di artigianato e i ristoranti, quando vedo dei furgoncini con scritto “Servizio cascate Kuang Si”.

Ho voglia di andarci, ma non ho voglia di guidare. Un servizio così é l’ideale.
Contrattiamo sul prezzo, che parte da 250.000 kip. Una follia. Riesco a scendere a 180, ma é sempre troppo. Vorrei pagare 120 o poco più.
“Tra 20 minuti vengono tre persone. Con loro, tutti insieme, ti faccio 100”.
“Ok!”, e vado a mangiare. 
Quando torno, dei tre non c’è traccia e il tipo ricomincia:
“Dai andiamo ! ”
Riesco a tirare fino a 150mila. 

​Usciamo dalla città dopo aver fiancheggiato il fiume per un lungo tratto.
La strada é abbastanza rovinata, ma niente di drammatico. Dopo aver visto la nazionale un paio di giorni fa, continuo a interrogarmi sullo stato delle altre strade.
Arriviamo alle cascate, il tipo mi aspetta nel parcheggio mentre mi arrampico nel bosco vedendo in sequenza delle cascate via via più grandi, fino al grande salto iniziale, quella più spettacolare. 




É molto più abbondante del solito per via delle piogge. Si capisce dal fatto che molte zone dell’area di visita sono allagate: tavolini e sedie nell’acqua, passerelle e ponticelli sommersi, acqua ovunque, anche nel sottobosco.

All’inizio della salita verso la cascata c’è un’area dove tengono (i cartelli dicono, proteggono) degli orsi. Sono diversi da quelli che avevo visto nello zoo.



Lungo la strada del ritorno ci fermiamo per qualche minuto nell’elephant camp, un’area di protezione dell’elefante. Almeno si propongono così, non capisco quanto invece non li sfruttino a scopo turistico.
Quello che mi stupisce é che, vedendoli nel loro ambiente naturale, in un’area aperta molto vasta, non sembrano nemmeno tanto grandi.

​(ci sono, ci sono… vicino agli alberi. Ma sembrano minuscoli!)


Mentre torniamo, vedo di nuovo, stavolta dentro l’abitacolo del furgone, dei sorpassi completamente pazzi. Siccome andiamo lentamente, due o tre auto ci superano in piena curva senza alcuna visibilità su chi sta arrivando. 
In una curva, arriva un motorino che schiva l’auto per un soffio. 
“Cinesi”, dice la mia guida scuotendo la testa. 
“Ah sì ? “, chiedo incuriosito. 
“Sì, sono loro che guidano così male”
In effetti, quello che ho visto in questi primi giorni é che apparentemente non ci sono vie di mezzo: la stragrande maggioranza, guida lentamente e molto prudentemente, sembra di stare in Belgio per quanto vanno piano.

E poi ci sono le schegge impazzite, nemmeno tanto in termini di velocità, quanto di manovre omicide.
Mi lascia all’inizio della via pedonale, dal lato opposto rispetto a dove mi ha preso tre ore fa. 

Si sta riempiendo di venditori di souvenir, un paradiso per i turisti. 


Compro un paio di acquerelli su carta artigianale e, quando do le banconote alla ragazza, questa le sbatte su tutti gli oggetti in vendita. Un gesto scaramantico per attirare altri soldi.
Quando rientro in albergo pregustando un po’ di riposo, ho una brutta sorpresa. Incontrando il ragazzo della reception, gli confermo che voglio fermarmi una notte in più. 
“Eh ma purtroppo non c’è posto. Abbiamo ricevuto una prenotazione da domani per tutte e nove le stanze”.
Provo a capire e insistere, ma non c’è verso: tutto pieno.
Quindi adesso, invece di riposarmi, devo iniziare a rifare i bagagli e domani devo trovare una guesthouse per una sola notte. Non ne ho molta voglia…
Domani decido, intanto punto la sveglia alle 5 perché voglio vedere la questua dei monaci.

La magia del Mekong

Mi sveglio all’improvviso. Sento dei rumori in lontananza. É ancora notte profonda, si capisce dal buio assoluto nel quale sono immerso.Poi realizzo, sono tuoni. Sempre più frequenti, sempre più forti.

In breve il mondo attorno a me viene squassato da una tempesta di fulmini e tuoni, potenti come esplosioni. Evidentemente cadono molto vicino.

Guardo l’ora. Le 5:45. Troppo presto per svegliarmi, troppo sveglio per riaddormentarmi.

Mi viene da ridere pensando che avevo deciso di iniziare dal nord, perché a sud pioveva… e invece da quando mi sono mosso verso nord, sto prendendo acqua. 

Finalmente mi riaddormento cullato da una piove scrosciante che non accenna a diminuire. 

Quando mi risveglio più tardi, però, é tutto finito ed è tornato il sole. 

Scendo tardi, oggi come colazione solo un cocco a bordo fiume. Sotto di me, un barcone ormeggiato da cui viene una musica ad alto volume. Cantano.

Ne approfitto per dare un’occhiata alla guida e capire cosa c’è da vedere. 

Alla fine vado verso la fine della penisola su cui sorge il centro storico di Luang Prabang, vicino al punto in cui il fiume Nom Khan finisce nel Mekong. 

Lì sorge uno dei templi più conosciuti della città, il Xien Thong. 


Mi aggiro tra la miriade di templi e tempietti, con decorazioni le più diverse: mosaici di pietre riflettenti, affreschi, incisioni. 


All’interno le immancabili statue del Buddha nelle posizioni più diverse, con sotto cataste di offerte e donazioni.


In uno di questi si trova un grande gong. Un gruppo di giapponesi lo osserva da vicino, poi mentre stanno per andare via, il custode si avvicina e, semplicemente accarezzando la parte rigonfia centrale, provoca un suono e una vibrazione sempre più forti, quasi assordante.  
Siamo tutti stupefatti. 

I giapponesi si mettono in fila per provare, io con loro. A turno provano ad accarezzare il gong, ma nessuno riesce a tirare fuori il minimo suono.

Arriva il mio turno. Non so bene come, dopo qualche secondo la vibrazione ed il suono partono e si amplificano. I giapponesi lanciano gridolini di stupore e ammirazione, come se avessi fatto chissà cosa.

Uscendo vengo fermato da un tipo che mi propone un giro in barca sul Mekong. 

“Mah non so, quanto costa ? “, chiedo poco convinto della cosa. 

“150.000 kip”, risponde, pari quasi a 20 euro, una follia visti i prezzi di qui.

“Ma no, troppo ! “, esclamo ricominciando a leggere la guida. 

“Oggi é un giorno buono per vedere il tramonto, domani piove ! ”

“D’accordo, ma é sempre troppo ! ”

“120.000 allora… con birra Lao inclusa nel prezzo ! “, rilancia. 

Contratto ancora un po’ e arriviamo a 100.000.

“Allora ci vediamo più tardi, alle 17 qui”, mi dice. 

“Ok! A più tardi ! “, ci stringiamo la mano e proseguo la passeggiata.

Passeggio per il centro storico, é meraviglioso. Una delle città più belle dove sia mai stato, per la bellezza delle abitazioni, la magia dei templi, la suggestione del luogo, sulle rive del Mekong, così evocativo.

Entro in alcune botteghe artigiane, dove producono in una oggetti con carta di riso fatta a mano, nell’altra vestiti, arredi per la casa, zaini e altro riutilizzando delle tele tradizionali delle minoranze del nord del paese. In quest’ultimo, purtroppo, i prezzi sono più che europei: un “runner” da tavola 85 dollari, un copricuscino 30, uno zaino 60 e così via. 

Passo da un tempio all’altro, sono tutti simili, ma tutti diversi e la bellezza delle case, dei templi, l’aria profumata per gli onnipresenti frangipani, la natura tropicale donano all’insieme un’atmosfera da favola.

In quello che si definisce un centro di meditazione, vedo un monaco che parla affabilmente con una ragazza dall’accento americano. Lei é carina e mi sembra lo guardi con interesse… non proprio spirituale. Il monaco parla in un inglese piuttosto buono.


Entro nell’ennesimo tempio, mi trovo davanti a una scena quasi macabra. Una statua di cera di un monaco sotto una teca trasparente con delle anziane che lo pregano inginocchiandosi fronte a terra. 


Subito a fianco, invece, il non plus ultra del prosaico, l’ennesima selfie maniaca che si riprende in tutte le pose possibili di fronte alla schiera di Buddha e offerte.


Poco lontano, in uno degli edifici inclusi nei templi, dove ci sono sempre diverse strutture (la pagoda sacra, chiamata sim, che ospita la statua principale del Buddha, poi altre pagode, poi uno o più reliquiari chiamato stupa, le case dei monaci, librerie, scuole… sono delle piccole comunità nella comunità) , scoppio a ridere vedendo una lavagna da scuola con delle frasi in inglese tradotte in Lao:
“Non sono abbastanza per te”, “ho intenzioni serie con te”, “non vedo nessun altro”.




Forse queste conversazioni non sono solo platoniche. E d’altronde il celibato degli officianti é una caratteristica solo di alcuni riti della religione cristiana, nemmeno di tutti.
In un’altra pagoda, a conferma del movimento che c’è, trovo un altro monaco che parla con un’altra ragazza. Lei le chiede cosa mangia, quali verdure. Esco subito perché il tempio é molto raccolto e da come si parlano e guardano, mi sento di troppo. 

Sento una serie di piccole campane che suonano, poi dei colpi di gong regolari che provengono da un tempio vicino. Sono le 16, probabilmente un rito di fine giornata. 

Vado e trovo dei giovani monaci che suonano il grande tamburo sospeso che si trova sempre in una piccola torre in tutti i templi, a fianco un altro monaco che suona due gong e un terzo che suona dei piatti.



Il risultato é un ritmo coinvolgente, una musica “ambient” che si potrebbe tranquillamente ballare in un club europeo!
Girando trovo un istituto francese, finanziato dalla Repubblica francese. Il primo segno tangibile di quello che fu il paese colonizzatore del Laos tra l’800 e il ‘900.

Tengono corsi di lingua e cultura francese. Sono le 16 passare da poco e una ventina di ragazzi sui 10/12 anni stanno ancora facendo lezione.

Inizio a tornare verso il tempio di stamattina per il giro in barca sul Mekong, ormai ho dato la parola.

Raggiungo il fiume per tornare guardando questo imponente nastro scuro, limaccioso che si snoda per migliaia di km.

Vengo fermato da un tipo:

“Giro in barca?”

“Sì, ma ho dato la parola con un altro vicino al tempio Xieng Thong!”

“Ok, ma puoi farlo con me”, ribatte.

“Ma no, ho preso l’impegno… quanto chiedi?”

Parte subito da 100.000 con birra, sa che deve giocare il tutto per tutto. 

“Ah, come l’altro! Dai, devo andare, altrimenti arrivo tardi ”

“Ok, 80mila, sempre con birra ”

“Ho dato la parola, sarebbe scorretto ! ”

“Saresti il primo della giornata, ho quella grande barca là “, e mi indica una delle tipiche imbarcazioni che si vedono qui, strette e lunghissime. 

Proseguiamo ancora un po’, poi me ne vado, tra mezz’ora ho l’appuntamento e vorrei passeggiare ancora un po’. 

Entro ancora in altri templi, sono numerosi quasi quanto le chiese a Roma !





Alla fine mi avvio deciso verso il luogo dell’appuntamento, sono in ritardo e il sole scende velocemente, il tramonto é vicino. 
Il tipo di prima mi affianca in scooter, mi ha seguito!

“Allora, vieni ?!”

É tardi, sono lontano da dove devo arrivare, mi sento scorretto, ma mi dico che forse se ne farà una ragione e rispondo ok.

Il tipo é molto contento, mi fa salire sullo scooter e arriviamo al punto del lungofiume dove ha la barca.

Mi chiede la cifra pattuita, 80mila kip e va a comprare la birra, una bottiglia grande per me e una per lui. Mi ringrazia e ripete che sono il primo e l’unico della giornata. 

Scendiamo sulla ripida e fangosa riva del Mekong. É occupata interamente da piccoli orti ben tenuti. 


Inizia il giro, sono felice di aver accettato perché la vista dal fiume é molto bella, tutta un’altra prospettiva. Mi accorgo che in alcune di queste barche ci vivono intere famiglie.
Risaliamo per un lungo tratto, poi scendiamo a motore spento, nel silenzio del grande, maestoso fiume.

Il sole scende, il magico momento del tramonto si avvicina. Ci sono altre barche con dei turisti a vedere il tramonto, comunque poche, saremo tre, massimo quattro. 

Il sole scende alle spalle di alcune colline sull’altra riva del fiume, riflettendosi sulle acque e sulle nuvole. L’atmosfera é magica.


Mi fa scendere su una piccola piattaforma in plastica, poco più a valle di dove abbiamo iniziato il giro. 
Mi fermo a guardare ancora un po’ lo spettacolo di luce e riflessi, facendomi prendere dalla suggestione del momento.


Arriva un’altra barca che da scendere due turiste giapponesi. Il tipo che guida la barca ha una faccia conosciuta, ma non riesco a ricordare dove l’ho visto.
“Hai fatto il giro ? ”

“Sì, bellissimo, appena finito!”, rispondo pensando che volesse propormi un giro a sua volta.

“Perché non sei venuto da me? Con chi l’hai fatto ? “, mi chiede con il viso teso, irritato.

Il tipo di stamattina !!

“Era tardi, ero molto lontano dal tempio, scusa…”, cerco di giustificarmi.

“Avevi detto che l’avresti fatto con me… quanto hai pagato?”

“80mila…”

“Ah ecco, ho capito, questione di soldi  “, esclama chiudendo la conversazione senza darmi possibilità di replica. Si  allontana sul fiume, accelerando il motore della grande barca.

Rimango a godere degli ultimi bagliori, cullato dal canto dei grilli, osservo le ultime pennellate di colore sulle nuvole e sull’acqua che scorre veloce. Magico.

É in momenti così intensi ed emozionanti che mi capita di ringraziare Dio o chi per lui, per tutto questo, per tutta la bellezza che riesco a vivere.

Ormai é completamente buio, ‎uso la luce del telefono per tornare nel mondo reale.

Torno in albergo per una doccia veloce, ma… crollo addormentato ! 

Mi riprendo che é già tardi, le 20 passate. Esco di nuovo per mangiare qualcosa, i templi sono illuminati. Vedo dei monaci ridere guardando un video su uno smartphone. 

‎Mangio una cosa veloce e mi lancio in una lunga passeggiata notturna. L’aria é calda, accogliente. 

Forse mi fermerò un giorno in più.

Curva su curva

Mi sveglio dopo nemmeno quattro ore di sonno. Mi giro e rigiro, ma non c’è verso: non mi riaddormento.Rinuncio e mi alzo, vedi mai che riesco a partire a un’ora decente.

Ma l’illusione dura poco. Decido infatti di seguire il consiglio di Barbara, di andare a vedere la grotta più famosa della zona, Tham Jang che ieri non avevo visto perché avevo fatto troppo tardi e per via… della lunga camminata che avrei dovuto fare per raggiungerla!

Per cui anche oggi partirò tardi, pazienza: é destino.

Si arriva dopo aver attraversato un suggestivo ponte in legno e acciaio, rosso brillante. Il caldo é intenso già a metà mattinata.



Sotto la lunga e ripida scalinata che porta all’ingresso delle grotte, c’è quella che potrebbe chiamarsi a buon diritto Laguna Blu, molto più blu di quella di ieri!

Le grotte sono abbastanza grandi e carine, precariamente illuminate da una serie di lampadine, di cui molte fulminate.


Due forti abbassamenti di  tensioni mi fanno chiedere cosa succederebbe se andasse via la corrente. 
Quando esco vengo assalito dal caldo e dall’umidità. Più che sudare, grondo abbondante acqua da tutti i pori.

Mi rimetto in moto senza giacca e senza casco per alcuni km, per riacquistare una temperatura umana al posto dell’attuale, che é più da maialino al forno.

E a proposito di maiali, vengo superato da un camion carico di questi animali, che semina una scia fetida per km e km.

La destinazione di oggi é Luang Prabang, l’antica capitale oggi patrimonio mondiale dell’umanità Unesco.

Dovrebbero essere 180 km, una tappa da fare in tutta tranquillità. 

Il traffico é molto scarso e i guidatori generalmente prudenti e lenti, per questo non mi aspettavo quanto accaduto l’altro giorno.

Vedo ancora un certo numero di abitazioni tradizionali in legno e bambù intrecciato, ma, come anticipato dallo splendido libro che stavo leggendo prima di partire, stanno scomparendo molto velocemente, sostituite dal cemento.


Sorprendentemente, vedo pochissime parabole, che contrasta con le foreste di parabole che vedevo anche in posti poverissimi, sul tetto di baracche o casupole di fango.
La strada, dopo un breve tratto pianeggiante, diventa stretta e tortuosa, come le nostre strade di montagna più impegnative. In più, é costellata di buche e parti sfondate. Ricorda, per dimensioni e condizioni, le piccole strade provinciali più isolate e semi abbandonate di Molise, Basilicata o Sicilia.


In compenso i paesaggi sono magnifici, di una bellezza primordiale, da alba del mondo, dove tutto é solo un unico trionfo della natura. Cime aguzze si ergono alle spalle di lunghe cortine di montagne, il tutto coperto da una vegetazione lussureggiante, tropicale.

Viaggio già da alcune ore, quando un cartello mi getta nello sconforto: mancano ancora 174 km!!! Evidentemente ho fatto male i conti… che a ben pensarci non ho mai fatto, avendo solo buttato un occhio sulla cartina per vedere che strada avrei dovuto fare. 
Taglio sciami di studenti in uscita dalla scuola. Tutti in bicicletta, tutti con un ombrello in mano per ripararsi dal sole. 


Deve essere già l’una. Non controllo l’orario, vado e basta, senza fermarmi.
Faccio il pieno di benzina per riposarmi qualche minuto. Non ho idea di quanti km faccio o a che velocità perché l’Occhialuta non ha la minima traccia di tachimetro o contakm, vado alla cieca.

“Quanto manca per Luang Prabang?”, chiedo al ragazzo che sta versando la benzina con grande attenzione.

“120”, sentenzia sicuro. 

“Uff… Quindi ancora 4 ore di strada”, gli dico affranto, facendo due rapidi calcoli sulla velocità a cui penso di andare per via di continue buche, curve e sporadici TIR. 

“Forse 3, dipende da quanto vai veloce”

“Sì, ma se piove?”, chiedo buttando un occhio verso il nero intenso poco più in là, da cui provengono forti tuoni che riecheggiano ple montagne.

“Eh no, in quel caso diventa difficile per la strada”.

Come immaginavo.

La strada diventa sempre peggio tra curve strette, labirinti di buche e frane. Dopo pochi minuti dalla sosta benzina, inizia a cadere qualche goccia di pioggia che, man mano che proseguo, diventa più fitta.

Mi trovo completamente allo scoperto, se mi cambio qui, mi infradicio in un minuto.

Torno indietro di qualche curva provando a cercare un riparo per mettermi la cerata e proteggere le cose che tengo nella borsa da serbatoio.

Arrivo ad alcune abitazioni, miste tra tradizionale con le pareti in legno e moderno, con tetto in lamiera e parti della mura in mattoni di cemento.

Sentendo i rumori, si faccia una giovane donna con neonato in braccio. Le sorrido indicando la pioggia che sta iniziando a cadere. Mi sorride e rientra in casa.

La pioggia aumenta, tiro fuori la cerata e vado a mettermi sotto la casa a fianco, ancora in costruzione. Ci sono i piloni e il tetto e due pareti. Il resto é un cantiere.

Esce anche la ragazza col neonato in braccio e un bambino che avrà un paio d’anni, attaccato al suo vestito che mi guarda di nascosto.


Decido di fermarmi, la pioggia cade abbondante e non ho nessuna voglia di guidare su questo asfalto sotto la pioggia battente. Sposto anche la moto sotto la tettoia della casa in costruzione. 
Dopo qualche minuto, visto che l’acqua cade con la stessa intensità senza dare cenni di voler smettere, decido di sedermi.

Essendo un cantiere, tutto é coperto di terra, che sposto col piede prima di sedermi.

Il tempo di accomodarmi che vedo il bimbo di due anni arrivare in silenzio e porgermi timidamente uno sgabellino di legno, di quelli che adoperano loro in casa per sedersi. Appena me lo dà, scappa dalla mamma che gli dice bravo. Lei non gli ha detto nulla, l’avrei sentito. É stato un suo gesto spontaneo che, nella sua semplicità e naturalezza, mi commuove.


Continuo a scambiare grandi sorrisi, sguardi e gesti con la ragazza e i suoi due figli, tutti molto interessati e divertiti da questo alieno barbuto arrivato chissà da dove.
Purtroppo comunicare é impossibile. 

Dopo una ventina di minuti smette di piovere, mi rimetto in moto.

Sull’asfalto bagnato di pessima qualità e condizioni con le gomme tassellate che ha la moto, ho la sensazione che scappi via sa tutte le parti, comunque mi abituo presto e riprendo ad andare, pur più lentamente. 


I km passano ad una velocità esasperantemente lenta attraverso le montagne interrotte di tanto in tanto da piccoli villaggi di abitazioni molto semplici.
L’arrivare col buio, molto probabile ma ancora in dubbio, diventa certezza quando arrivo a una frana che blocca completamente la strada. Due ruspe stanno lavorando alacremente per liberare la strada dalla terra e dai massi caduti dalla montagna. 

Tutti aspettano placidamente: motorini avanti a tutti, poi auto e un paio di pullman e camion. Tutti fuori a vedere i lavori.


Quello che più mi stupisce e preoccupa allo stesso tempo é che questa é la dorsale principale del paese, quella più grande e in migliori condizioni. Chissà le altre ! 
Alla fine il blocco dura pochi minuti, una quindicina.

Mi rimetto in marcia.

La giornata volge al termine. In tutti i villaggi che attraverso vedo le persone lavarsi in strada, prendendo l’acqua da grandi bidoni di metallo come quelli che si vedono nei film americani nelle periferie delle città o vasche in cemento, come quelle dove si abbeverano gli animali. Oppure da semplici tubi volanti di plastica che buttano un sottile getto d’acqua.


Gelida, a vedere le espressioni di sofferenza e risate frenetiche delle persone che si lavano sotto, strofinandosi energicamente col sapone.
É un rito collettivo di ogni villaggio: praticamente fuori da ogni casa, qualcuno si sta lavando.

Mi accorgo di non aver mangiato nulla e anche di aver bevuto pochissimo sa quando sono partito stamattina da Vang Vieng. 

Il sole é già molto basso e l’asfalto é quasi asciutto. Inizio a spingere di più tra le curve. Ormai ho imparato come reagisce la moto con le gomme tassellate, i freni e le sospensioni. 


Mi dispiace solo che così riduco il margine di sicurezza, ma non ho voglia di trovarmi tra queste montagne con questa strada al buio. Lì il margine di sicurezza sarebbe ancora minore.  
Per cui, infilo le curve una dietro l’altra e mi diverto.

Finalmente arrivo col culo completamente indolenzito. La sella della moto é durissima, sembra una panchina ! Devo assolutamente trovare un cuscino da metterci sopra.

Mi fermo per sgranchirmi e mandare qualche messaggio per tranquillizzare le persone più vicine. Ne approfitto per guardare la cartina della città e capire com’è fatta, dove si trovano le guesthouse.

Percorro la parte del centro storico stretta tra le acque, un fiume che probabilmente é un braccio del Mekong e il Mekong dall’altra parte. Domani capirò meglio, mi sembra splendida. 

Mi fermo per chiedere in un albergo stupendo, proprio di fronte al Mekong. 

“Sì, abbiamo diverse stanze, da 150, 180 o 220 a notte, dipende da dove la vuole”, mi spiega con un sorriso il ragazzo alla reception. 

Mi accorgo da come mi guardano, che sono coperto di fango. Non ci avevo fatto caso.

“Dollari americani”, aggiunge dopo aver visto la mia espressione interrogativa.

“Mh, un po’ fuori budget per me… sa indicarmi una guesthouse ? ”

“Sì, proprio qui a fianco”

Proseguo sul lungo fiume, a sinistra eleganti alberghi di design, a destra il grande nastro scuro nella notte del Mekong. 

Il suo nome mitico continua a colpirmi, l’ho ascoltato e letto troppe volte per non essere ancora incredulo di essere qui, sulle sue rive.

Faccio qualche centinaia di metri e passo davanti a una elegante guesthouse in legno e mattoni lucidati, bellissima.  

Decido di chiedere, si definisce comunque una guesthouse, quindi il prezzo non può essere troppo alto.

“Normalmente sarebbe 40 dollari a notte… ma se si ferma 3 notti, posso fare 35”

Ci penso un attimo. Sono a pezzi dalla giornata, splendida di paesaggi e umanità vista e incontrata, ma fisicamente a pezzi. Sono di fronte al Mekong in una splendida guesthouse. 

Contratto ma non voglio esagerare, per cui rilancio di poco.

“100 dollari per 3 notti?”

La signora accetta subito. Forse avrei potuto tirare di più, 90 dollari per esempio, ma non me la sono sentita, né avevo la forza per farlo.

Mi butto sotto la doccia, sono coperto di polvere e fango. In pochi minuti capisco perché sopra al letto é annodata una grande zanzariera: ho già tre o quattro pizzichi, di zanzare completamente invisibili.

Esco per cena, felice di guidare sul lungofiume senza casco, in pantaloni e camicia leggeri e aperti, con i sandali. Favoloso farsi accarezzare dall’aria tiepida.

Trovo un ristorante in riva al fiume e finalmente mangio, dopo quasi 12 ore di digiuno. 

Sono troppo curioso di vedere e visitare la città domani con la luce del giorno!

La bellezza del riso

Non essendo inclusa la colazione nella guesthouse da 10 euro dove dormo, finalmente posso fare colazione come dico io: macedonia di frutta con yogurt bianco e centrifuga di carota e zenzero. Fantastico!


Oggi potrei decidere cosa fare nei prossimi giorni. Le opzioni sono fondamentalmente due: o solo centro nord, perché il sud é lontano e soprattutto piove per via della fine della stagione monsonica, oppure tentare la sorte ed andare a esplorare anche la zona a sud, che mi incuriosisce soprattutto per un sito khmer.

Per adesso però, mi dedico alla scoperta dei dintorni di Viang Vieng, di cui ho letto ottime opinioni, ma che ancora non ho nemmeno intravisto essendo arrivato ieri di notte.
Mentre sto uscendo dal paesino, mi devo fermare per far passare un’infernale colonna di dune buggy rumorosi e puzzolenti, carichi di decine di turisti. Mi chiedo come sia possibile entrare in contatto con un territorio, con delle emozioni, con delle suggestioni, in un gruppo di decine di dune buggy cariche di persone. 

Per entrare nel cuore dell’area più interessante, ricca di grotte, villaggi e panorami, devo attraversare un ponte mobile coperto di assi di legno che, come decorazione alle due estremità , ha due piccoli missili inesplosi dei tempi della guerra del Vietnam. 

Ormai innocui e banalizzati, ma comunque impressionanti.


Al di là del ponte, nel giro di pochi metri ci si immerge in un mare verde brillante di risaie, accarezzate dal vento. Ovunque, a perdita d’occhio, fino alle affascinanti cime aguzze, coperte fittamente di alberi, che racchiudono la grande piana. 
Guardando più attentamente si scopre una fitta ragnatela di canali e passaggi d’acqua che inondano i campi permettendo la crescita di questo alimento così basilare per queste popolazioni. 


Nei pressi della cosiddetta Laguna Blu, mi fermo in un piccolo ristorante che fa parte delle iniziative organizzate da una NGO, la Sae Lao che, oltre a questa,  gestisce molti progetti interessanti quali dei corsi di lingua, di informatica, tecniche ecologiche di riciclo, artigianato e molto altro.


Mentre finisco di mangiare, vedo due furgoni carichi di persone che vanno senz’altro alla Laguna Blu.
Me la prendo con calma per dargli un po’ di tempo per visitarla e arrivare mentre loro se ne staranno andando a infettare un altro luogo o indietro a Vieng Viang.

Riparto e dopo poche centinaia di metri arrivo alla Laguna Blu che scopro essere stato trasformato in una specie di parco giochi dove si paga un biglietto per entrare.

Attorno a una piccola pozza d’acqua, la laguna blu, ci sono decine di giapponesi, americani e europei urlanti, specialmente nei confronti di quelli che cercano di tuffarsi da un ramo che si affaccia sulla laguna.


Tra parentesi, ancora nessun italiano, mi è capitato veramente di rado.
Faccio un breve bagno e un paio di tuffi refrigeranti per riprendere la moto è proseguire il giro. Giusto in tempo per vedere altre quattro (!) camionette arrivare e scaricare altre decine di turisti, che trascorreranno lì il resto del pomeriggio, bevendo birra e assordandosi di urla e musica.

L’asfalto termina, segno che dovrei iniziare una parte meno battuta dalle orde dei barbari dei viaggi organizzati.


La pista si snoda tra le risaie, punteggiate di tanto in tanto dai tradizionali capanni degli attrezzi e da qualche rado villaggio. Ma non si é mai veramente soli, c’è sempre qualcuno in bicicletta o in motorino, qualche ragazzo che porta le mucche al pascolo.  


Tra questi, mi colpisce una bambina con due vacche. Le vacche placide brucano l’erba. La bimba, protetta da un ombrello, é piegata su uno smartphone.
La rivoluzione ormai é arrivata, é questione di tempo per cui la gente non vorrà più condurre questa esistenza e anelito ad altro, come hanno fatto anche i loro vicini, cinesi e vietnamiti in testa. 

Terzani temeva il ponte che univa Thailandia e Laos, che poi alla fine é arrivato nonostante le resistenze dei laotiani.

Ma adesso non servono nemmeno più infrastrutture per diffondere nuovi modelli di vita e sogni da inseguire. 

Viaggia sull’etere, come si suol dire ed é alla portata di tutti, letteralmente nelle mani di tutti, fin dalla più tenera età. 

Anche qui, in una zona rurale relativamente isolata di un paese teoricamente comunista.

Mi fermo spesso per farmi avvolgere dal silenzio e dall’aria che é calda, profumata. Sensuale.


Passo davanti ad una grotta, annunciata da un grande cartello. Il banchetto della biglietteria é vuoto. Meglio così, vuol dire che non é di grande passaggio. 
A parte una piccola area esterna, non c’è molto, se non una freccia dipinta sulla roccia che indica l’ingresso della grotta, completamente buio.

Il tempo di abituare gli occhi all’oscurità totale ed inizio ad addentrarmi nella montagna illuminando i passi con il flash del cellulare.

Inizio a prendere dei riferimenti, ad esempio un pezzo di legno per terra, per evitare di perdermi cercando l’uscita. 

Ma scopro che é uno sforzo inutile, perché é davvero piccola come grotta, tre o quattro ambienti che si sviluppano su poche decine di metri.


Proseguo il giro, incrociando di nuovo decine e decine di studenti, soprattutto ragazze mi sembra, che tornano a casa da scuola.



Segno che sono le 16, inizia ad essere tardi e come al solito mi sono dilungato diverse ore più del dovuto. 
Non per altro, soprattutto perché all’orizzonte, come di consueto, si sono già addensate enormi cumuli di nuvole nere, che mandano riecheggiare di cupi tuoni l’intera vallata.

Mi fermo ad ascoltarli per qualche minuto, bruciato dal sole alle mie spalle che ancora non é stato coperto dalla massa nera, che stanotte scaricherà la sua furia d’acqua sulle risaie.


Prendo come scusa l’ora tarda per accelerare un po’ di più l’andatura, ma non troppo visto che sono senza la benché minima protezione, a parte il casco. 

La moto é leggera e divertente, si guida molto facilmente e assorbe perfettamente anche le buche più profonde e dure.

Prima di rientrare in paese, faccio il pieno di benzina in vista del viaggio di domani, poi torno in albergo per farmi una doccia veloce e poi di nuovo fuori, sulle rive del fiume che bagna il paese, a godere gli ultimi, spettacolari, raggi di sole.


E domani… Luang Prabang !

Poveri animali

Mi sveglio alle 6.15, ma per fortuna riesco a riaddormentarmi, poi mi sveglio di nuovo alle 10 completamente intontito dal sonno.

Stamattina per colazione stranamente non c’è la carta igienica, ma i tovaglioli che utilizzano qui … e ad essere sincero, era molto meglio la carta igienica!

Decisamente più robusta.

Mentre preparo i bagagli, cerco della musica laotiana su internet. Lo stile è molto orientale, avrei detto “cinese”, come il suono della loro lingua.

Carico i bagagli sulla moto, che al retrotreno é minimale, senza il più piccolo appiglio a cui agganciare un elastico. Mi invento un passaggio, tra il telaio e il portapacchi, sperando che regga.

Per fortuna ieri sono tornato da Fuark per cambiare il casco! Infatti ne avevo preso uno da cross senza visiera, scomodissimo! E sono riuscito a trovare un fantastico modulare che, scopro oggi, ha anche la visierina scura ! Ieri non me ne ero accorto. 

L’uscita dalla capitale é rallentata da una lunga periferia, in cui passo a fianco di cattedrali nel deserto, palazzoni mai finiti, in zone completamente isolate.

Dopo molti km passo a fianco a un immenso impianto industriale, al cui ingresso giganteggia un cartello che annuncia l’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola.

Mi tornano in mente la parole di Jean Louis, che diceva che il Laos non produce nulla, a parte l’oppio.

Superato un ponte dopo una ventina di km da Vientiane, la strada si stringe drasticamente e finalmente l’orizzonte si apre su bei paesaggi di natura tropicale con abitazioni tipiche ai lati della strada.


Passo accanto a un fiume, dove c’è anche un bel tempio. L’acqua é molto alta, si vede che siamo ancora nella stagione delle piogge.


All’altezza del cosiddetto zoo del Laos, mi fermo da una signora a lato della strada che vende frutta, tra cui del cocco fresco. Ne chiedo uno, che bevo tutto d’un fiato.


Decido di andare allo zoo. Non mi ricordo dove, ho letto che é una bella struttura, dove gli animali hanno molto spazio e sono ben tenuti.


Ma il tempo di entrare e me ne pento: le voliere sono minuscole e chi più, chi meno, sta in un recinto minuscolo a soffrire.
L’orso nero é quello che mi stringe di più il cuore: ha il fiatone per quanto sta morendo di caldo (io per il caldo umido, continuo a buttare fuori acqua per quanto sudo anche stando fermo… immagino lui con quella pelliccia che si ritrova!).


Sono talmente sudato che, quando esco, faccio qualche km senza giacca e senza casco. Poi il casco me lo rimetto, la giacca no.

​Con un ponte nuovo e moderno passo il Mekong. Avrei preferito attraversarlo con una chiatta, come sicuramente si faceva prima che venisse costruito. Anche qui i cinesi, come in Africa, in America del Sud e altrove, stanno imponendo le loro opere.
Sono le 16, una moltitudine di bambini e ragazzi escono dalle scuole per tornare a casa. Sono tutti in divisa.


Prendo una strada che congiunge la numero 10, che sto facendo io, con la numero 13 che arriva a Vang Vieng, meta finale di oggi.


Mi ritrovo su una strada che tanto tempo fa era asfaltata, ma che oggi é un inferno di buche, tanto che le piste ai lati della strada sono decisamente migliori.


Poco dopo aver raggiunto la 13, finalmente la strada inizia a piegarsi in una serie di curve che salgono e scendono dalla serie di colline e basse montagne che muovono il paesaggio.
La strada richiede sempre attenzione, soprattutto per le moto, che occupano l’ultima “classe sociale” stradale. In cima alla gerarchia ci sono i grandi camion, poi i furgoni, poi le auto. Tutti questi hanno diritto di vita e di morte sulle classi inferiori e le moto sono quella più in basso di tutte.

A conferma di ciò, mentre guido e mi godo le curve, facendo comunque attenzione agli altri veicoli, inizio una curva molto stretta a sinistra in discesa completamente cieca, perché occupata da un grande TIR che arranca in salita. Andrò a 40, massimo 50 km orari.

Proprio a metà curva, che scopro metro dopo metro perché il TIR toglie qualsiasi visuale, mi ritrovo un grande fuoristrada completamente nella mia corsia.

Ho pochi istanti per reagire, gli sono praticamente già nel cofano in un frontale. L’adrenalina mi manda una scossa e una botta come un pugno alla bocca dello stomaco.

L’istinto agisce per me, perché la coscienza é sicuramente più lenta.

Mi attacco ai freni per rallentare e raddrizzarmi, in modo da non finire addosso alla macchina. Purtroppo però siamo in montagna e la strada finisce in uno strapiombo. 

In una frazione di secondo, riesco a infilarmi nella stretta striscia tra l’asfalto e il vuoto. Stretta striscia sterrata, ovviamente.

Per fortuna riesco a finire la curva sullo sterrato senza conseguenze, a parte una enorme paura. Non so di quanti cm lo evito ma sicuramente pochi.

Credo che questa sia la terza, forse la quarta volta, in tutti i miei viaggi, che ringrazio di essere in moto. In un’auto non avrei avuto scampo, il frontale era garantito.

L’ultima ora di viaggio la faccio col buio, arrivo a Vang Vieng di notte, troppe soste aggiunte alla partenza molto tardi da Vientiane. 

​​

Guidare di notte non é il massimo, tra abbaglianti fissi degli altri veicoli e ogni genere di essere, animale umano e inanimato che attraversa la strada.

Trovo una guesthouse e vado a cena, morto di fame. 

Nel tempo che mangio, si addensa un temporale che esplode con violenza e intensità tropicale. 

Mi godrei il potente spettacolo della natura se non fosse che mi ritrovo circondato da americani che ridono e parlano a voce alta, mentre tengono un telefono col vivavoce che sputa ad alto volume dell’orrenda musica rap.

Vado a dormire stanco morto, anche se comunque ancora non riesco ad addormentarmi prima dell’1, le 2, che in Europa corrispondono alle 8, le 9 di sera‎.

La moto con gli occhioni

Ho appuntamento alle 8.30 con Jean Louis che viene a prendermi per andare a ritirare la moto. Mi sveglio alle 7.45, morto di sonno perché ieri sono andato a dormire alle due passate.
Vicino alla reception ci sono due ragazze. Sono sedute davanti alla televisione ma non lo stanno guardando: sono concentrate sui loro cellulari.Quando le chiamo per dirle che voglio la colazione, alzano appena la testa e mi rivolgono uno sguardo vuoto, senza spiccare parola.

Dopo aver scelto la colazione tra due possibili opzioni, entrambe praticamente identiche, a base di prosciutto pomodoro e uova, una di loro me la porta. Poi, quando sta per andarsene, si accorge di aver dimenticato qualcosa. Si gira velocemente per prendere da un altro tavolo i tovaglioli o meglio, quello che dovrebbero essere tovaglioli, in realtà si tratta di un rotolo di carta igienica!! L’appoggia sul tavolo con tutta naturalezza e torna a farsi i fatti suoi, seduta sulla poltrona di prima.


Nella notte ha piovuto, me ne accorgo dai tavolini e dalle sedie fuori dall’albergo, che sono tutti bagnati.
Mi stupisco di vedere in giro per strada diverse bandiere con la falce martello. Non credevo fossero così espliciti; pensavo  fossero “più” nascosti.

Arriva puntuale e mi dice di prendere le borse laterali perché vuole trovare  una soluzione per poterle attaccare senza danneggiare la moto.

Come sospettavo andiamo da mister Fuark, che però non ho potuto contattare perché non ha un sito Internet.

Quando facciamo la prova per mettere le borse laterali, vediamo che quella di destra schiaccia un po’ troppo la fiancata contro la marmitta. Per questo motivo mettiamo del fil di ferro che ha portato lui.


Scelgo il casco poi in sella alla moto seguo Jean Louis, che mi riporta in albergo.

Decido di fare dei giri in dei posti che sono un poco fuori città, ne approfitto di avere la moto.

Prima di andare fuori città, però, vado a visitare un paio di templi che sono abbastanza vicino al centro. Il primo é molto interessante: ha una miriade di nicchie con migliaia e migliaia di Budda. 


Il secondo invece é anch’esso molto antico e lo hanno appena finito di restaurare. Il risultato purtroppo é abbastanza disneiano.

All’interno come al solito é vietato scattare fotografie e io come al solito le faccio ugualmente, mettendomi la macchina fotografica all’altezza della pancia. Stavolta, però c’è una guardia molto attenta. Dopo nemmeno cinque minuti che sto girando, mi raggiunge di corsa e mi chiede di vedere la macchina fotografica. La accende e, mentre mi ripete per l’ennesima volta che é vietato fare fotografie, mi cancella tutte le foto che ho scattato nel frattempo all’interno del tempio.

Proseguo fuori città,  verso un grande stupa buddista che é anche il simbolo della città.

Lungo la strada passo davanti all’arco di trionfo, un delirio architettonico franco-laotiano ideato dai francesi sulla forma sulla falsariga del loro arco di trionfo a Parigi, che riportato qui è soltanto ridicolo.


Arrivo al grande tempio buddista, ma purtroppo è in restauro, per cui tutta la cupola dello stupa è completamente nascosta delle impalcature di ferro.


Passeggio attorno al tempio, poi vado in un tempio a fianco che ospita una statua immensa di Buddha e ancora in un altro tempio completamente affrescato. 

Mentre torno alla moto, vengo avvicinato da un tipo con in mano una miriade di gabbie minuscole con dentro due/tre uccellini che cinguettano a tutto spiano e si agitano. In pratica funziona che tu paghi e lui li libera! Almeno finché non li cattura di nuovo.

Torno in città per visitare ‎il museo d’arte nazionale. L’esposizione non è particolarmente interessante, però c’è una parte stimolante, che riguarda il recente passato comunista, la colonizzazione francese e l’incredibile devastazione effettuata dagli americani durante la guerra del Vietnam. 


Faccio l’ultimo giro in altri due templi lungo la strada.

Nel tentativo di raggiungere il Mekong, arrivo in una parte di lungofiume magnifica. Ha uno splendido panorama sul fiume e sulla Thailandia e una lunga sequenza di tavoli e tavolini con i relativi banchetti dove cucinano un po’ di tutto.
Mi fermo in uno di questi per prendere una birra e dei frutti di mare . Nella birra c’è del ghiaccio che sommati ai frutti di mare penso siano le due cose le più sconsigliate di quando si viaggia. Staremo a vedere nelle prossime ore se davvero mi sentirò male oppure no.
Il tramonto é magnifico e ricco di colori che vengono riflessi dall’acqua, che é  solcata da piccole imbarcazioni dii pescatori che iniziano il loro turno di notte.


‎​

Nel frattempo nel tavolo a fianco si fermano  degli europei: due tedeschi e un americano. Quest’ultimo parla di moto, per cui si fa strada in me l’ipotesi che possa trattarsi di Jim, la persona con la quale ho parlato più giorni per metterci d’accordo per affittare la moto è che alla fine mi è sembrato che con una scusa si volatilizzasse.‎
Non è Jim, ma un amico che lo conosce molto bene: lavorano insieme. Il mondo è davvero piccolo!

Mi dicono che nel nord sicuramente troverò tempo migliore e di stare attento a non avvicinarmi troppo alla Thailandia, perché é in corso da diversi giorni un tifone con vaste inondazioni. Adesso si dovrebbe spostare verso nord ,verso il Giappone

Li saluto e torno in albergo: sono stanco morto, prima  verso le sei ho avuto dei momenti in cui non riuscivo a tenere gli occhi aperti!
Domani mattina lascerò Vientiane,  sono molto contento! Finalmente inizierò a visitare per davvero questo paese, ad addentrarmi nel suo territorio.

La lunga marcia

L’aereo tarda ad arrivare.

Alla fine vengo a sapere il motivo ufficiale del ritardo: é stato l’aereo in partenza ieri da Bangkok ad essersi rotto ed essere stato sostituito e siamo in attesa che questo arrivi. 

Quindi noi lamentiamo un ritardo di (almeno) tre ore, ma le persone che stanno arrivando da Bangkok, invece, ne stanno avendo uno di otto!

Tutto é relativo, per cui: relax.

Soprattutto perché la coincidenza per Vientiane é dopo 6 ore, me ne restano ancora 3 da passare nell’aeroporto di Bangkok.

Molti passeggeri nel frattempo si mettono in fila al desk per chiedere informazioni. Vanno in Vietnam e perderanno sicuramente la coincidenza. Però nessuno alza la voce o dà in escandescenze. Si informano, annuiscono e parlano tra loro.

Finalmente arriva l’aereo e dopo un’altra attesa per la pulizia, il carico della benzina e dei bagagli e per i controlli vari, ci fanno salire accogliendoci ciascuno con un inchino, un sorriso e le mani giunte. Bellissimo.


Ma continuiamo a non muoverci. 

Alla fine, le ore di ritardo diventano quattro.

Finalmente decolliamo sotto un cielo magnifico e una temperatura da autunno romano, meraviglioso.

Ovviamente non mi dispiace partire, ma mi dispiace perdere un week end così gradevole e così raro, a Bruxelles.

Per fortuna l’aereo non è molto pieno, ho un posto libero a fianco e riesco a mettermi a fianco del finestrino. Vengo graziato anche con i bambini: incredibilmente, non si sente nessun urlo di neonato.

Per il resto, solita vita da volo intercontinentale, con il tempo scandito dai pasti: aperitivo, cena e così via.

Il tipo seduto nella mia stessa fila, dopo il salvifico posto vuoto, puzza d’alcool in maniera imbarazzante. E quello che ordina durante il volo non fa che confermare quello che l’olfatto non può nascondere. Per aperitivo un gin tonic e svariati bis di vino rosso durante i pasti.

La cosa mi lascerebbe indifferente, se attorno a sé non spandesse un forte odore da ubriacone che avverto, pungente, anche mentre provo a dormire.
Come al solito, non chiudo occhio. Non so in che posizione mettermi, mi giro in continuazione.

Il mattino e, con lui, una hostess insistente nel passarmi una salvietta bollente, arrivano a togliermi d’impaccio. É ora di mangiare nuovamente, anche se per il mio corpo sono le 2 del mattino.

Poco prima di arrivare a Bangkok, il vicino che continua a puzzare d’alcool mi rivolge la parola :
“Dove stai andando?”
“Laos”
“Ah… io mi fermo in Thailandia invece, ho la fidanzata”, mi dice soddisfatto.
Mi ricorda una persona che ho conosciuto anni fa a Roma, un ultra sessantenne con una fidanzata ventenne in Thailandia. Lui di anni ne ha 53.
“Ma perché il Laos?”, mi chiede con un mezzo sorriso.
Niente, continua a perseguitarmi questa domanda.
“Così, mi incuriosisce …”
“E il Vietnam, la Thailandia, la Cambogia… ti sono piaciute? Dove sei andato?”
“Mai stato, é la mia prima volta nel sud-est asiatico”
“La prima volta nel sud-est asiatico … e vai in Laos?!” mi chiede guardandomi con un’espressione come se uno gli avesse detto che, dopo aver attraversato mezzo mondo per andare in Europa, come primo paese da visitare in esclusiva per tre settimane avesse scelto, non so… il Kosovo.
“Eh…”
“Ma poi vai in Thailandia o in Vietnam!”, mi chiede con un tono praticamente affermativo.
“No, solo Laos”
“Solo Laos?!”, mi guarda sempre più incredulo, “e per quanto tempo?”
“Tre settimane”
“Tre settimane?!”
Ormai sembra di parlare davanti a uno specchio… però mi vengono i dubbi, se non siano troppe tre settimane… ma alla fine ho i libri, mi trovo un posto tranquillo e ci passo anche una settimana a far nulla.
“Ma tu sei mai stato in Laos?”
“No, mai… Prima o poi ci andrò”
Chiudo la conversazione che ormai é diventata paradossale…
Arriviamo nell’immenso aeroporto di Bangkok , in un corridoio passo a fianco a un’incredibile struttura con decine di orchidee fiorite.

Camminando verso il mio terminal, lontano circa 700 metri (!) passo velocemente a fianco di un americano che sta aggredendo verbalmente una hostess:

“It’s YOUR problem, not mine!” Le dice ad alta voce, indice puntato contro la sua figura. Quanta arroganza qui, nel paese del sorriso. Effettivamente sorridono tutti.

Attendo il volo per Vientiane, carico di dubbi e stanchezza.
Arriva l’ora e saliamo su un bus che deve portarci all’aereo. Ho la conferma che l’aeroporto di Bangkok é immenso! E, incredibilmente, ci sono ingorghi tra i vari mezzi di servizio. Mi domando come sia il traffico fuori di qui!
Sull’aereo prendo il tagliando dell’immigrazione.
Come temevo, chiede dove pernotterò… Decido di mettere il nome di una guesthouse che ho letto qualche ora fa sulla guida, anche se loro nemmeno sanno della mia esistenza. Speriamo bene.
Cado addormentato in continui micro-sonni, quando una mano mi scuote vigorosamente il braccio: c’è un nuovo pasto!

Sono felice perché avevo fame. Il menù é molto più semplice e orientale, almeno nella portata principale.

Finalmente atterriamo nel piccolo aeroporto di Vientiane. 
Sono in fila assieme ad altre decine di persone quando accade qualcosa che mi fa sudare molto freddo.

Tutti i passaporti vengono ispezionati velocemente da un poliziotto per  ‎venire poi indirizzati al giusto sportello. Arriva un gruppo di tre uomini con passaporto inglese. Due vanno bene, il terzo no:
“Non ha pagine libere, non può fare il visto!”, esclama il poliziotto restituendo il passaporto al tipo.
“Come, cosa?!”
Glielo spiega nuovamente, intanto si avvicinano dei colleghi.
“Ma io non lo sapevo, non é possibile, mi scusi, ma non c’è un modo?”
Intanto viene interpellato anche uno dei poliziotti agli sportelli che emettono I visti. Vedo da lontano che scuote la testa.
Ormai attorno al tipo ci sono una decina di poliziotti, chi parla con lui, chi al telefono chiamando qualche responsabile, chi parla l’uno con l’altro.

É un continuo esclamare “you cannot!” finché non viene riaccompagnato fuori, verso il terminal per tornare da dove era venuto. Thailandia anche lui, in questo caso .
Tiro un enorme sospiro si sollievo per il rischio che ho corso… Mi rendo conto che quello che ho letto su internet é impraticabile, i poliziotti sono sempre due o tre e praticamente in mezzo alle persone. 
Alla fine faccio due ore di ritardo, per fortuna Jean Louis mi ha aspettato e mi aiuta anche a prendere una scheda GSM e a cambiare un po’ di soldi.
Mi accompagna in albergo in macchina, raccontandomi quanto si sta bene in Laos:

“Sì sta bene, siamo liberi di parlare, telefonare, guidare e tutto il resto, si sta benissimo! Solo la politica, non la possiamo fare”

Mangiamo un boccone in un ristorante belga (!!)  e mi spiega un po’ di itinerari sulla cartina.

Vive qui da 25 anni, é motociclista da una vita e fa la guida per gruppi di moto. Oltre ad affittare a singoli come me.
Faccio un giro in città. ‎ Ci sono alcuni templi interessanti, faccio il mio incontro con dei monaci buddisti in tonaca arancione.

Parlano, puliscono gli spazi comuni, meditano. 

Sul lungofiume si alternano senza soluzione di continuità una serie di banchi che, su una vasta parete alle loro spalle, hanno decine e decine di palloncini con cui fare il tiro a segno. É il divertimento della città, tutti provano e l’aria è continuamente rotta da queste esplosioni.
Sulle rive del Mekong (il Mekong ! Che nome magico! Quanti libri, quanti scrittori…) si assiepano contadini che vendono le loro poche verdure.

La mania per i selfie e gli stick per riprendersi, qui ha raggiunto un livello di mania inquietante. 

Il mercatino serale, invece, é un concentrato di robaccia cinese.
Mi godo la notte sulle rive del fiume, contemplando la sponda thailandese che viene illuminata in lontananza da grandi lampi rossastri che fiammeggiano bassi  sull’orizzonte!

Un nuovo aereo da… 

Il tempo vola e un po’ mi sveglio tardi, un po’ ho sempre tante cose da fare prima di una partenza, alle 11:30 sono ancora a casa.

Il volo decolla alle 13:30.

Carico sulla moto le valigie e la borsa da serbatoio che userò in Laos e mi precipito a velocità da ritiro della patente all’aeroporto.

Arrivo, parcheggio, mi precipito all’imballaggio bagagli e poi al check-in. I banchi della Thai hanno tutti una piccola orchidea, un tocco di armonia che mi piace, ma che non addolcisce l’amara sorpresa che mi attende:
“Mi dispiace, ma l’aereo ha due ore di ritardo, ecco un voucher con cui può comprare qualcosa da mangiare” mi dice l’hostess con un sorriso, mentre mi mette in mano i tagliandi del check-in e due coupon da 11 euro in tutto.

Il tempo di passare i controlli di sicurezza e arrivare al gate e le ore di ritardo diventano tre.
“Ma lei per caso sa il motivo?”, chiedo a una passeggera che aspetta con me, una signora vietnamita.
“Sì, si è rotto l’aereo e quello di ricambio sta arrivando da Bangkok”, mi spiega in tutta tranquillità, come se mi stesse indicando dove si trovano le toilette.
“Da… Bangkok?! Ma ci vogliono molte più ore allora ! ”
“Penso che se ne siano accorti ieri, sta arrivando da là, me l’ha detto un’impiegata”.

Ok, va bene, aspettiamo… con filosofia e calma orientale.

Tutto pronto! (?)


I bagagli sono stati la cosa più facile da mettere insieme. Un po’ di esperienza e soprattutto le liste che ho messo a punto negli anni mi hanno aiutato ad abbattere drasticamente i tempi e, spero, a non dimenticare le cose più importanti.

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Anche l’affitto della moto, alla fine, non é stato troppo complicato. Per quanto l’americano trapiantato in Laos anni fa e molto conosciuto nell’ambiente, con cui mi sono scritto per giorni, sembrasse poco convinto (e il mio intuito aveva indovinato, dato che ieri mi ha definitivamente mollato senza grandi spiegazioni), sapevo che una volta sul posto ne avrei trovate sicuramente.

Non ero preoccupato e ci avevo visto giusto, perché appena il primo tipo mi ha mollato, in pochi minuti ne ho trovato subito un altro, Jean Louis, un francese (segno del destino, é chiaro che da qualche tempo mi trovo sotto il segno dei Galli)  che nel giro di mezza giornata mi ha confermato la moto, senza anticipo e con trasporto dall’aeroporto in città.

Dovrebbe essere una Honda Baja 250. Mi é sempre piaciuta come moto: la trovo divertente, simpatica… una che non si prende troppo sul serio. Come piacciono a me.


All’albergo non ci ho proprio pensato invece. Sto partendo senza nemmeno aver provato a cercare un letto. Ma Jean Louis ha detto che mi aiuta‎, per cui, di nuovo, non mi preoccupo.

Anche se non ho nemmeno la più pallida idea di come sia fatta Vientiane e cosa ci sia da vedere. Mi sono informato pochissimo sul paese e il poco che ho visto mi ha fatto venire ancora più voglia.

Ma sto di nuovo divagando.

No, quello che mi ha preoccupato di più non è stato nulla di tutto questo, quanto piuttosto l’unica cosa che pensavo fosse a posto: il passaporto !

Pochi giorni fa, scopro che é necessario avere almeno una pagina completamente libera per poter mettere il visto del Laos, che é uno di quegli adesivi che occupano, appunto, una pagina intera.

Scrivo subito al consolato italiano di Bruxelles dove inizialmente sembrava potessero farne uno nuovo nel giro di poco tempo, poi la domanda fatidica:

“Ma sei iscritto alle liste dei residenti all’estero??”

“Ehm, ancora no…”

“E allora niente, ci vogliono alcune settimane, serve il nulla osta della tua questura in Italia…”

“Ma io parto tra tre giorni ! ”

“……”

Ho iniziato quindi a cercare informazioni su internet e , per fortuna le poche che ho trovato erano tranquillizzanti:

“Il visto lo mettono anche su altre pagine, tipo quella sui figli. Se gli dai qualche dollaro di mancia, di sicuro non ti fanno problemi ”

Ero quindi determinato e ormai rassegnato a partire “alla Nelik”, cioè andando a vedere sul posto cosa sarebbe successo, se avrebbero avuto il coraggio di mandarmi indietro, quando stamattina un messaggio di Jean Louis mi fa cambiare completamente idea:

“Je me suis renseigné et il faut impérativement et obligatoirement 2 pages de libre, Une page pour le visa et Une page pour le tampon…”

Quindi servono non una, ma due pagine libere!

Erano le 8:35 quando ho letto il messaggio, alle 8:45 ero fuori casa e alle 8:55 ero al consolato italiano, in tempo per l’apertura alle 9.

Per fortuna non mi fanno storie per ricevermi, nonostante lo facciano solo su appuntamento e, dopo aver visto nuovamente che non ero iscritto al registro, mi prendono un appuntamento seduta stante per registrarmi.

Registro, foto e tutto il resto, nel giro di meno di due ore entro in possesso di un nuovo passaporto. Fantastico!

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Domani quindi… Inizia l’avventura ! Prima tappa Bangkok!

Ma… perché il Laos? Cosa c’è da vedere?!

Ho capito di aver fatto la scelta giusta quando, anche la decima persona a cui ho detto che sì, avevo finalmente deciso dove sarei andato in vacanza e che si trattava del Laos, mi ha chiesto con espressione tra lo stranito-quasi-schifato e il divertito-ma-sei-pazzo: “Ma….. perché il Laos? Cosa c’è da vedere?!”

Un paese sconosciuto ai più, non turistico (probabilmente perché senza sbocchi sul mare) e quindi per me fonte di grande curiosità e desiderio di scoprire e conoscere.

Del Laos avevo in mente solo poche immagini e sensazioni: una giungla verdissima e rigogliosa e degli imponenti elefanti ammirati in un articolo di una rivista di turismo di tanti anni fa.

La scelta iniziale, in realtà, era ricaduta su un altro paese, l’Etiopia, ma vista la sua attuale instabilità di scontri, morti e blocchi, ho deciso di andare nel secondo paese nella mia lista personale di luoghi dove vorrei andare appena possibile.
E poi, mi sono ascoltato e non me lo sentivo in questo momento… ho più desiderio di natura rigogliosa e selvaggia; della pace e del lento ritmo della cultura buddista.

Il Laos quindi… quel Laos che i francesi, all’epoca della colonizzazione, descrivevano così:
“I vietnamiti piantano il riso, i khmer li stanno a guardare e i lao ascoltano il riso che cresce” e che Tiziano Terzani descriveva così:
“Al momento basta ancora metterci piede per sentire che nel Laos c’è qualcosa di unico e di poetico nell’aria: le giornate sono lunghe e lente e la gente ha una quiete dolcezza che non si trova nel resto dell’Indocina.” e sul quale sempre Terzani si interrogava, già conoscendo intimamente la risposta:
“Il Mekong era piatto e senza drammi (…) a sinistra la sponda laotiana con i villaggi di capanne all’ombra delle palme di cocco, le barche a remi ormeggiate al fondo di semplici scale di bambù e, la sera, i bagliori teneri delle lucine olio nel silenzio; a destra la sponda thailandese: luci al neon, la musica degli altoparlanti e rombare lontano dei motori. Da una parte il passato da cui tutti vogliono strappare i laotienne, dall’altra il futuro verso cui tutti credono di dover correre. Su quale sponda la felicità?”

Laos, l’antica Asia bagnata dalla Madre delle Acque… arrivo!

Una camminata per Buenos Aires

Mi confermo il Signore della Pioggia, visto che mi sveglio sotto un cielo grigio e una pioggia battente. 

“Fino a ieri c’era un sole incredibile e molto caldo!”, mi conferma mia zia. 

“Immagino, zia, immagino…”

Però considerato che é tardi e che l’unico monumento vicino é la Recoleta, il cimitero monumentale di Buenos Aires, non potrebbe esserci atmosfera migliore: cupa, malinconica. 

Mi avvio tra le strade ed i viali eleganti, fino ad arrivare davanti all’ingresso, preceduto da un piccolo parco con alcune statue a tema. 

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Si entra da un grande portale ad archi e ci si immerge subito in viali via via più sommessi e minuti, tra tumuli e cappelle la cui grandiosità rispecchia la ricchezza del defunto. Come in vita, così nella morte. 

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Molti sono veri e propri monumenti progettati e creati per impressionare e decantarne la grandezza e la gloria nei secoli. 

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É una città nella città, passeggio tra le tombe facendomi ammaliare dall’atmosfera. 

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Trovo anche la sepoltura di Eva Peron, ancora molto amata in Argentina.  

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Torno verso casa passando da un’altra strada, per fortuna smette di piovere.

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Dopo pranzo passeggio per chilometri nel centro, partendo dal Congreso Nacional che occupa un lato di una piazza immensa. 

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Dall’altro lato sento cori e tamburi: una manifestazione. Vado verso il corteo e rimango colpito dalle bandiere che sventolano senza sosta. 

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É la prima volta che in una manifestazione vedo così tante bandiere rosso-nere degli anarchici, soprattutto a fianco di quelle comuniste con falce e martello. 
Storicamente gli anarchici hanno più di un motivo per evitare i comunisti. 

Percorro l’intera avenida de Mayo fino alla celeberrima Plaza de Mayo, dove si affacciano la Casa Rosada ed altri monumenti. 

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Al centro é parcheggiato un camion con alcuni ragazzi che, amplificati ad un volume da spaccare le orecchie, ripetono a turno una manciata di slogan per ricordare le vittime della repressione di una manifestazione di qualche anno fa, insieme ad altre rivendicazioni sociali riguardo il lavoro ed altri diritti. 

Arrivo fin davanti alla Casa Rosada. Ricordo che Nicola mi aveva detto di averla visitata, quindi mi affaccio per capire se é aperta. 
Vedo le persone che entrano alla spicciolata, mi accodo. 

Dopo un passaggio nel metal detector si entra in un androne dove una ragazza segna i nomi delle persone per formare i gruppi di visita. 
Ne é appena partito uno, sorride e mi fa passare per farmi aggregare senza aspettare un’ora per il prossimo. 

La guida ci mostra i quadri che ritraggono le personalità del passato remoto e recente della nazione: paladini dell’indipendenza, poi popolazioni indios che abitavano queste terre prima che arrivasse l’uomo bianco, fino ad arrivare, lungo un excursus temporale, alle personalità dei giorni nostri politiche e non, come Astor Piazzolla o il calciatore Messi. 

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Passiamo attraverso sale riccamente arredate che si aprono sulla città con finestre e balconi.

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Esco che la giornata é quasi terminata. Mi siedo su una panchina in Plaza de Mayo per decidere dove proseguire. 

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Dopo qualche minuto mi passa davanti una delle persone del gruppo con cui ho visitato la Casa Rosada. 
Sí ferma per ringraziarmi di stare visitando l’Argentina e la capitale. 

Riprendo a camminare, mi lascio prendere dalla malinconia: questo é l’ultimo giorno di viaggio e di una splendida avventura. 
Cerco di godermi il più possibile quello che vedo, me ne riempio gli occhi e il cuore, per portare dentro me il più a lungo possibile queste sensazioni e questi colori anche quando, tra poche settimane, la mia vita cambierà radicalmente. 

Passo davanti ad una moto identica spiccicata alla Pollita, mi fermo qualche minuto a guardarla, perso nei ricordi e nei pensieri.

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In centro é pieno di cambi abusivi: ogni pochi passi incrocio una persona che ripete in continuazione, a bassa voce, “cambio, cambio, casa de cambio”!
Ne approfitto per prendere dei pesos e comprare qualche altro regalo.  

Passeggio nel crepuscolo tra piazze eleganti e viali. É una città ricca di alberi e spazi verdi. 

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Sotto il teatro dell’Opera é stato allestito un presepe quasi a grandezza naturale, mentre alle sue spalle, in totale contrasto di atmosfera, una piccola orchestra suona musiche tra tango e jazz.

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Torno a casa che ormai é buio. Chiacchiero un po’ con i miei zii, che tornano a lamentarsi, giustamente, del fatto che mi sono fermato per un solo giorno:

“La prossima volta, devi fermarti almeno 15, 20 giorni!”, esclamano. 

Penso che sia geneticamente impossibile per me fermarmi così a lungo in un posto quando sono in viaggio: é troppa la curiosità di vedere altri posti!

Preparo i bagagli e vado a dormire senza cena, sono ancora pieno dal pranzo. 
Cerco di prepararmi psicologicamente alla fine del viaggio, non sarà facile. 

Si torna in Argentina!

É il grande giorno, anche se normalmente si dice così dei bei momenti, non delle separazioni dolorose. 

Rifacciamo l’ennesimo punto dei documenti. 

Stranamente non si trova un foglio importante che fino a ieri sera c’era.
Dopo la solita decina di minuti di panico, un grande classico tra me e i vari fogli e foglietti, si trova anche questo. 

É giunta l’ora. 

Mi preparo per l’ultima corsa con la Pollita. 

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Nicola ha trovato un casco, andiamo insieme, poi il ritorno lo faremo in autobus. 

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Superiamo il ponte sul Biobío, il fiume di Concepción, qualche altro minuto e ci siamo. 

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Li troviamo già lì, in fila. La burocrazia cilena é commovente, soprattutto per noi italiani abituati a costi e tempi senza senso.
Con meno di 100 euro e in poco più di un’ora, abbiamo fatto tutto. 
La Pollita ufficialmente non é più mia.

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Il padre, che ha la mia età, mi passa il malloppo dei pesos. Gli raccomando di curare la moto e volerle bene come gliene ho voluto io, mi sto quasi commuovendo. 
Mi guarda un po’ stupito, sorride e mi saluta. 

Ci allontaniamo di corsa per evitare qualsiasi eventuale protesta per la ruggine che adesso, alla luce del sole, si vede perfettamente. 

Facciamo un giro in centro per cambiare i soldi.

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Entriamo nella cattedrale dove vedo una vetrata con un santo armato di un lungo coltello. 

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Mi viene voglia di tornare a Salta per raccontarlo al tipo del museo privato, che me l’aveva venduta come una rarità, mentre ecco che ne ho già visto un altro diverso dai due esposti nel museo. 

Nella piazza principale sta suonando un gruppo tradizionale,si vedono chiaramente i tratti indigeni dei mapuche, gli unici indio che sono riusciti a resistere alla conquista spagnola. 

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Tanto per cambiare, gli euro sono molto rari: i dollari sono molto più graditi. Girando tre uffici di cambi, ne racimolo 550. Il resto lo cambio in dollari, prima o poi mi serviranno oppure li cambierò in euro più avanti. 
Alla fine ho l’equivalente di circa 800 euro. 

Non male, visto che ormai avevo messo una pietra sopra alla moto, dandola per dispersa a Recife senza possibilità di venderla. 

Alla fine tutto si é incastrato come un meccanismo perfetto.

A provare a farlo in maniera organizzata, secondo me, non sarebbe mai riuscito. 
Ora che é praticamente finito, posso dire che tutto il giro é andato alla perfezione: in due anni la moto é riuscita a tornare, io sono arrivato con un giorno di anticipo per pulirla e sistemarla, avere il tempo di mettere l’annuncio e farla vedere, poi venderla di mattina ed il pomeriggio ho l’aereo per Buenos Aires. 

Tutto va come deve andare. 

Saluto tutta la famiglia di Nicola tra grandi abbracci e commozione, spero riusciremo a rivederci presto!

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In aeroporto mi fanno un po’ di storie per le borse laterali della moto.

Sono legate insieme, ma si vede che sono due e, con la borsa a cilindro sono in eccesso di bagagli, perché posso portarne solo due. 
Alla fine chiude un occhio, però per sicurezza mette comunque un’etichetta per ciascuna delle due borse laterali, per evitare problemi se per caso se ne perde solo una. 

Salgo a bordo, vedo che il capitano é una donna. Mi ricorda la pilota dell’elicottero sulle cateratte di Iguazú. 

Nell’aereo c’è il panico.
Hanno fatto salire persone con trolley molti grandi, anche più di uno a testa. 
Non si sa dove mettere i bagagli, il corridoio é ingombro con una decina di bagagli a mano, sembra di stare in un pullman affollato.
L’equipaggio va avanti e indietro, ognuno con una o due valigie in mano, cercando un posto dove metterle. 
La gente protesta. 
Perdiamo almeno un’ora così, che poi non recuperiamo.  

Arrivo a Buenos Aires che é molto tardi. Trovo Amelia e José ad aspettarmi, arriviamo a casa che é mezzanotte! 

Mentre torniamo a casa in auto, non si capacitano che mi fermo solo un giorno. 

Ritorno, promesso!!