Tra gli antichi Moche

L’idea di oggi è portare la Pollita dal dottore per far rivedere la carburazione, risalente ormai al Mago di (La) Paz, quindi a 1000 km fa e soprattutto a 4000 metri fa, sopra al livello del mare.

Recupero la moto al garage e chiedo indicazioni per un meccanico:

“Vai sulla Avenida Perù alla nona eschina,  là c’è uno bravo”

Qui in Perù, ma credo in generale in Sud America, usano sempre il concetto di “esquina”, ossia di isolato. E’ un ottimo modo di orientarsi, perchè ogni eschina regola i numeri civici: la prima eschina ha i numeri dal 100 al 199 (quelli che servono, ovviamente), la seconda dal 200 al 299 e così via. Più facile di così!

Mi concedo il piacere di guidare senza casco, anche se qui significa solo riempirsi di polvere e smog, arrivo alla nona eschina, chiedo del meccanico che mi hanno indicato, ma mi dirottano alla undicesima. Proseguo e devo infilarmi in un budello, un cancello con un sentiero che va verso l’interno. Alcune botteghe nere di grasso e olio si affacciano da un lato. Un cane arrotolato per terra mi osserva, ma per fortuna mi ignora.
Il meccanico che mi è stato indicato non ha l’aiutante e lui non sa fare il lavoro.

“Prova da lui”, mi dice indicandomi uno degli antri oscuri a cui sono appena passato davanti, “lui lo sa fare!”

Vado e spiego nuovamente la situazione, la carburazione da rifare, il getto da cambiare e tutto il resto.

“Il mio aiutante non c’è e io non so fare il lavoro”, mi ripete anche lui, “vai da Mastro Lenin!”

“Da chi?!”

“Mastro Lenin, è qui sulla calle principale, due botteghe più avanti”

“L-E-N-I-N??”

“Sì Mastro Lenin”, mi ripete per la terza volta iniziando a guardarmi come se fossi tonto.

Bè, questo non posso perdermelo.

Esco e due botteghe dopo c’è un’officina abbastanza grande, confrontata ai buchi dove sono appena stato, ma sempre un antro lurido e nero, con una ventina di moto parcheggiate fuori, in vari stati di decomposizione. Alcune sono veramente ai minimi termini, il telaio e poco più attaccato addosso, altre invece sono abbastanza integre.

Trovo Mastro Lenin, un ometto panciuto un po’ stempiato, che non assomiglia assolutamente a Lenin, forse è solo per fede politica. Gli spiego cosa mi serve, mi risponde con aria di chi ha già capito tutto e mi dice di tornare alle 14.

Sono le 10:15 e senza pensarci su, salto sul primo taxi e chiedo di andare alle Huacas. Lungo la strada, mi viene in mente che in albergo mi hanno detto che il check-out è alle 12, poi devo pagare un’altra notte. Il piano dovrebbe essere: lascio la stanza, alle 14 prendo la moto, parto, visito Chan Chan lungo la strada e in serata arrivo a Chiclayo.
Ho dei dubbi, ma ci provo, nel frattempo vado alle Huacas.

Per arrivare il taxi fa, non so se per farmi vedere altre piramidi oppure se è proprio quella la strada, diversi sentieri sterrati e stradine secondarie, fino a passare sotto una piramide in adobe in discrete condizioni. E’ una delle piramidi di questa vallata una volta controllata dai Moche, prima che gli Inca li conquistassero.

Arriviamo al sito archeologico, prima visito il museo e poi le piramidi. Il museo ha relativamente pochi pezzi, per essere costruito a fianco degli scavi, con tutte quelle piramidi, ma in eccellenti condizioni e meravigliosamente belli. Di nuovo rappresentazioni pittoriche e scultoree di vita quotidiana, dei personaggi importanti, degli animali sacri e non, dei lavori e così via. Non avevano la scrittura, ma come si dice, vale più un’immagine di mille parole e questo è il caso perchè viene raccontato il quotidiano, lo straordinario e il soprannaturale.

Uscito dal museo, percorro il lungo tratto che c’è tra il museo e le piramidi vere e proprie. Quando arrivo all’ingresso, una delle guide del sito mi ferma: si entra solo con guida. Le spiego che sono di fretta, che sono le 11:15 e che alle 12 devo lasciare la stanza nell’ostello vicino la plaza de Armas.

“Quanto dura la visita?”

“Un’ora”

“Non si può fare più in fretta?”

“Può darsi, devi parlarne con la guida, ma le piramidi sono molto belle e la facciata che vedrai alla fine è incredibile, devi vederla con calma!”

Decido che l’ostello può attendere: magari mi regala un’ora in più oppure pago e amen.

Si visita solo la piramide della Luna, quella del Sole è ancora oggetto di scavi. Effettivamente è molto interessante, ci spiega che la piramide è costituita da cinque piani, costruiti in epoche diverse. Quando un’epoca terminava, “tappavano” il piano precedente, cioè riempivano di adobe tutte le aperture, porte e finestre per irrobustirla e la inglobavano nel nuovo piano, ricoprendolo di adobe. Quindi, i 5 piani sono concentrici. Il quinto in realtà non c’è, perchè i tombaroli l’hanno distrutto per derubare i manufatti all’interno e i fattori climatici hanno demolito il resto.
Comunque, a giudicare dal museo, si sono salvati tanti elementi di pregio, così come nelle piramidi ci sono molti affreschi ancora in discrete condizioni. Conoscere le usanze e soprattutto le credenze e i rituali, mi mette a disagio, perchè da un lato non posso che ammirare e invidiare la loro soggezione alla natura ed agli elementi che ne regolano la vita, dall’altro però sapere che per ingraziarsi gli Dei, facevano (anche) sacrifici umani … visitiamo infatti prima gli spogliatoi dove venivano preparate le vittime e poi l’altare dove si effettuava l’uccisione, si pensa per decapitazione, dove veniva raccolto il sangue da offrire in sacrificio, il tutto osservato e probabilmente incoraggiato, dal popolo che osservava dal basso della piramide.

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La visita finisce, torno nel parcheggio e l’unico mezzo che trovo su cui salire è un tre ruote, chiuso con una carrozzeria auto costruita, ma completo di tutti i confort: autoradio, sedili imbottiti, portiere.

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E’ incredibile, lo so, come so che è una completa coincidenza, fatto sta che non ho mai, mai visto un tre ruote inseguito dai cani in queste settimane di viaggio. Bene, appena salgo sul trabiccolo, facciamo sì e no 300 metri e due cani ci inseguono abbaiando a pochi centimetri dalle portiere, che provvedo a chiudere immediatamente. Che si sia sparsa la voce??

Purtroppo il tre ruote non arriva alla plaza de Armas, ma percorre la stradina sinuosa come un serpente e lastricata che ho fatto ieri. Mi molla sulla Panamericana.

Fermo il primo taxi che passa e salgo. La macchina cade letteralmente a pezzi, ma per lo meno mi porta in centro. Lungo la strada, cambio piano: non mi va assolutamente di fare le corse e partire adesso. Resto un’altra notte a Trujillo, in quello che resta della giornata mangio con calma, riprendo la moto, vado a visitare Chan Chan e domani parto presto (sì, come no!) e vado a visitare Lambayeque e un altro museo nei pressi.

Seguo il piano e faccio una lunga passeggiata nella strada pedonale di Trujillo, piena di edifici coloniali restaurati.

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Mi affaccio anche in quello che sulle prima mi sembra un albergo di lusso, ma il portiere a guardia dell’edificio mi dice che è un club, vietandomi l’ingresso. Mi concedo un piacere che amo, farmi lucidare la scarpe 🙂

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(mh, interessante … !)

Chiedo informazioni su dove mangiare un seviche coi fiocchi e mi indicano un ristorante per fortuna molto vicino. Il seviche è come una insalata di mare, che può essere solo di un tipo (solo frutti di mare, solo granchio, ecc) oppure un misto. L’avevo mangiato a Lagunillas, ma parlando l’altro giorno con la signora e le figlie, mi avevano chiesto:

“Piccante eh?”

“Veramente non era piccante …”

“Allora era un finto seviche!! Ora che vai a Trujillo, lì lo troverai buono, è la loro specialità!”

Ed effettivamente questo è piccante! Sarà il sughetto che è piccante, ma soprattutto è un tizzone ardente quello che sembra un innocuo peperone: è la cosa più piccante che abbia mai mangiato in vita mia! Tutto quello che entra a contatto con il malefico poparuolo, va in fiamme e non smette di bruciare! Le labbra, la lingua bruciano fino alle lacrime e l’effetto dura dai 5 ai 10 minuti in cui non c’è nulla che si possa fare per placare il dolore. Comunque il seviche è ottimo e freschissimo e lo accompagno con l’amata chicha morada.

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(il mostro piccantissimo è quello in cima a tutto, a forma di ruota)

Finisco la passeggiata, torno in albergo per prendere il casco e vado a recuperare la moto.

Giro di prova, sembra che Mastro Lenin abbia fatto un ottimo lavoro, il tutto per 30 soles, 8 euro.

Arrivo a Chan Chan che sono quasi le 16. Mi infilo dietro a un gruppo e visito a sbafo il museo, questo con ancora meno manufatti (ma sempre molto interessanti) rispetto alle Huacas, ma con più rappresentazioni in dimensione reale, di scene di vita dell’epoca: come mangiavano, dove vivevano, i sacerdoti, i lavori manuali, ecc tutti ambientazioni ben fatte e realistiche.

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Usciamo, io sempre in coda a questo gruppo, cercando di non farmi notare, poi vedo che salgono in pulmino al grido di “tutti a Chan Chan!!”

Ma come, non siamo a Chan Chan??

Chiedo ad un guardiano dov’è Chan Chan e mi dice che è a meno di un km e che devo sbrigarmi, perché tra meno di 10 minuti il sito chiude!

Inforco la Pollita, mi accodo al pulmino che torna sulla strada principale e poi entra in un sentiero sterrato chiuso da una sbarra, che ci viene aperta da un custode.

Il sentiero si snoda tra i resti della città di Chan Chan, per arrivare sotto alla fortezza meglio conservata e più grande di tutte. E’ l’unica che si può visitare.

Anche qui, faccio “il sorcio” e mi accodo al gruppo, schivando la biglietteria. Una volta all’interno, scivolo tra un gruppo e l’altro, cercando di non farmi notare troppo.
La città è estremamente affascinante, ricca com’è di decorazioni in adobe e argilla; le abitazioni sono articolate, somiglianti più a labirinti che a luoghi dove si dorme e si mangia. Purtroppo perdo quasi tutte le guide e non so la funzione dei diversi ambienti, ma mi lascio affascinare dalle decorazioni, sempre diverse tra un ambiente e l’altro. E poi questi labirinti …
Sento un italiano (uno dei pochissimi incontrati sino ad oggi) poco distante che declama:
“Ecco, qui si capisce che è un magazzino, quella la sala di un tempio, ma questi corridoi chiusi … non hanno senso!”

Gioisco della “follia” e della incomprensibilità di questi uomini che hanno creato queste strutture magnifiche così riccamente decorate, che migliaia di anni dopo vengono definite “senza senso” da un occidentale razionale. Perchè deve avere per forza un senso? Perchè non farsi affascinare dal mistero e dalla bellezza geometrica di queste decorazioni, senza dover classificare e inquadrare ogni cosa?

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Mi aggiro nella miriade di ambienti, poi per uscire mi accodo nuovamente a un gruppo. L’ho scampata, niente biglietto! Non mi sento troppo in colpa, ne ho pagati tanti, per una volta me lo risparmio.

Tornando verso il centro, mi torna in mente il mare: da dentro la città di Chan Chan lo sentivo in lontananza, sono curioso di vederlo.

Vedo un sentiero sterrato che va verso il mare, fermo un vecchietto e gli chiedo:

“Questo cammino porta al mare?”

“Sì, lo segui e arriva al mare”

“E cosa c’è? Un porto, un molo …”

“Nulla … c’è il mare!”

Ok, mi addentro e passo accanto ad altre strutture in adobe, apparentemente antiche, ma completamente circondate da campi coltivati e dalle poche baracche di quelli che vivono lì. Supero un blocco di tre cani, che per fortuna si gettano contro un altro che sta arrivando in moto e proseguo verso il mare, tra canne e vegetazione sempre più fitta.
Ad un certo punto, il sentiero si apre e vedo che il mare è ancora molto distante. Mi scoraggio, inizia anche a scendere il sole, decido di tornare indietro.
Stavolta l’agguato dei cani è preparato alla perfezione: mi vedono arrivare da lontano, ma non ho possibilità di scampo, l’unica è passargli davanti su questo stretto viottolo. Uno salta fuori dal fossato a fianco del sentiero, due mi corrono a fianco, a pochi centimetri. Per fortuna riesco a non cadere, pur guidando su pietre sul fondo sabbioso, però per sicurezza alzo le gambe. Mi hanno veramente stancato questi cani randagi.

Torno verso la plaza de Armas, non prima di essermi fatto un bel succo di canna da zucchero lungo la strada, buono! Dolce il giusto e molto naturale.

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Sotto l’albergo mi prendo un po’ cura della Pollita, oggi è il suo giorno: rabbocco l’olio (credo che con questa sia la seconda, massimo la terza volta che lo faccio in vent’anni di viaggi in moto! Devo proprio volerle bene alla Pollita!) e ingrasso la catena.

Ceno, sistemo i bagagli e mi preparo per domani.

Sono molto curioso del museo del Signore di Sipàn a Labayeque, pare che sia straordinario!

– – – – –

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Al Norte, fino a Trujillo

Il nome di questa città mi mette a disagio perché mi ricorda quello del dittatore di Santo Domingo, la cui vita è descritta magnificamente nel libro “La festa del caprone” di Mario Vargas Llosa. Comunque sia, è la destinazione che mi sono prefissato per oggi.

Parto all’alba delle 10:30 e mi butto sulla Panamericana. Ho letto un po’ la guida e non c’è nulla di rilevante lungo la strada, quindi oggi guido e scruto il paesaggio. Che varia pur restando prettamente desertico, da vere e proprie montagne di sabbia, ad altre nere e antracite, fino a colline ocra e rosso ruggine. Incredibile la varietà di colori che può assumere il deserto!

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(duna “a schiena d’armadillo”)

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La strada a volte fiancheggia l’oceano, che si mostra da lontano con alti spruzzi di schiuma sollevati quando le onde si infrangono sulla costa. Per vedere delle colonne di schiuma così alte, stando ad almeno 3 km di distanza, immagino che le onde debbano essere davvero imponenti.

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Il cielo si schiarisce dalla solita cappa grigia, ad un azzurro timido e nascosto da alcune nubi, fino al sereno caldo e deciso. Gli avvoltoi, che da parecchio sono una costante nel cielo, dopo un certo paesino di cui non ricordo il nome, diventano un vero e proprio stormo. A lato della strada, un cartello indica “cimitero” e l’aria improvvisamente diventa satura del fetore di carne putrefatta. Mi giro e vedo, sulla sinistra, una oscura e piccola valle, completamente nera, con un fuoco che arde al centro, ma senza fiamma, solo fumo. Che razza di cimitero è e perché volteggiano tutti questi avvoltoi?

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(gli uccelli che si vedono, sono tutti avvoltoi che volteggiano in continuazione)

Proseguo la corsa, ovviamente in senso metaforico, visto anche che adesso la carburazione della Pollita è completamente sballata, visto che è ancora tarata su La Paz, a 4000 metri di altitudine e ora mi trovo sì e no a 300 metri. Per andare va, però tutti (meccanici, amici, ecc) mi dicono che rovino il motore e sto andando avanti così da Cusco, da esattamente 1000 km!

Inizio la giornata con l’allegria dei giapponesi Pizzicato Five, poi proseguo con il caro vecchio Bob Marley. Inizialmente penso che sia fuori luogo, vista la bruma che sovrasta tutto, a perdita d’occhio e la malinconia che ne deriva. Invece è vero il contrario, grazie a Bob, l’interno del mio casco si trasforma in un giardino tropicale pieno di verde, pappagalli e gente che balla con camicie a fiori.

“Don’t worry ‘bout a thing,
‘Cause every little thing gonna be all right.”

(tratto da Three Little Birds, Bob Marley)

Speriamo Bob, intanto vado a nord, poi vediamo se mi fanno entrare in Ecuador!

Durante l’ennesima sequenza di saliscendi su alte dune di sabbia, sotto il cielo terso e l’oceano in lontananza che si infrange sulla costa, metto l’esaltante cavalcata elettronica K-Pax dei Kirlian Camera: credo che questa sarà un’altra di quelle combinazioni di suoni, immagini ed emozioni che mi resteranno dentro.

Come in ogni deserto che si rispetti, di tanto in tanto appaiono, inaspettate e magiche, delle oasi, ma non con le palme e le capanne di paglia, ma con la vegetazione ed i campi coltivati e le abitazioni.

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(questo è il ristorante di mio padre 😉

Finalmente arrivo a Trujillo. E’ tardi ma non troppo, c’è almeno un’ora di luce. Quindi, quando vedo il cartello Huaca del Sol y Luna che indica verso destra, imbocco senza pensarci due volte. Dopo aver svoltato, vedo un sentiero in terra battuta ed un cartello con scritto a vernice rossa, Huacas con una freccia che indica il sentiero.
Dopo l’esperienza di ieri, non mi stupisco che l’accesso al sito sia sterrato. Quello che inizia a stupirmi sono i km che passano sul sentiero che diventa via via più piccolo e distrutto di buche e pietre e sabbia. Ma possibile che per accedere alla huacas tocca fare tutto questo giro assurdo? Non ci passerebbe nemmeno un pulmino, a malapena le auto!
Però le frecce che indicano le huacas continuano, su un muro, su una porta di una casa abbandonata, su un cartello appeso a un palo, quindi continuo anch’io. Chiedo anche informazioni un paio di volte e il sentiero viene confermato.
In tutto questo, conto almeno 5 cani che mi inseguono, di cui 2 che provano a mordermi con un certo zelo.

Basta! mi dico, adesso torno indietro, all’inferno le huacas e i cani, quando arrivo al termine del sentiero, che sbuca su una strada più grande, lastricata di mattoni. Vengo letteralmente accerchiato da un gruppo di una decina di bambini, bambine e ragazze. Vendono dei cioccolatini e delle frittelle. Non aspettavo altro che una scusa per fermarmi e me ne offrono una fantastica! Compro due cioccolatini e una frittella e iniziamo a parlare, di dove vivono loro, di cosa fanno, di me, del mio viaggio.

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Ovviamente sono in ritardo clamoroso e il sito è chiuso, me lo indicano in lontananza, vedo le strutture bianche sulla collina di fronte a me, a poche centinaia di metri.
Però ho la conferma che tutto serve, nulla è inutile. Già stavo maledicendo di essermi addentrato nel sentiero, facendomi perdere tempo inutilmente, mentre invece alla fine ho conosciuto un gruppo bellissimo di persone con cui ho chiacchierato e mi sono fatto un po’ di risate. Che mi serva di lezione.

Dopo un po’ li devo salutare:

“Per dove devo andare, per la plaza de Armas di Trujillo?”

“Meglio di qua, segui la strada!” e mi indicano la strada lastricata, verso destra.

La seguo nella sua sinuosità di serpente, con curve morbide destra-sinistra tra le basse case con giardino della periferia.

Ad un certo punto, la strada che sto seguendo sbuca niente meno che … sulla Panamericana, nello stesso identico punto dove ero entrato circa un’ora fa. E di colpo capisco l’errore clamoroso, il cartello stradale indicava la strada lastricata, non il sentiero che ho preso, che è per i locali!

Nessun problema, imbocco la Panamericana, arrivo a Trujillo e trovo da dormire vicino la plaza de Armas.

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Inizio a informarmi su dove portare la Pollita domani. E poi teoricamente, vorrei andare a visitare le huacas e Chan Chan. Vediamo quanto riuscirò a realizzare di questo ambizioso piano!

Adelante adelante!

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Verso Truijillo! 🙂

Come si vede, il cilindro s’è dimezzato e le borse pure si sono un pochino svuotate … A tutti i critici del mio bagaglio, va bene ora?! 😉

La tanica é la prima volta che la lego così, vediamo se si muove meno rispetto a come la legavo prima.

Verso el Norte!

Dopo aver svuotato (poco) le valigie laterali e la sacca a cilindro (tanto), devo riorganizzare tutto il bagaglio e non ne ho la minima voglia. E come con tutte le cose che non mi vanno, tiro tardi e allungo i tempi all’esasperazione.

Si fanno le 10, le 10:30, le 10:45, quando sento bussare alla porta. E’ il ragazzo della reception:

“Resti un altro giorno?”

“No, perchè? A che ora è il check-out??”

“Alle 11!”

Bene, a questo punto sono contento che mi caccia, almeno mi sbrigo.

Alle 12 sono quasi pronto, quando rincontro Daniel, un ragazzo venezuelano che avevo incrociato un paio d’ore prima, a colazione. Iniziamo a parlare e mi dà moltissime informazioni utili e consigli sul Venezuela: cosa vedere, cosa evitare, cosa fare e non fare.

Finalmente intorno all’1:30 del pomeriggio mi metto in marcia, uscendo attraverso l’infinita periferia di Lima. La Panamericana è monotona, complice sia il cielo costantemente coperto di una cappa grigia di nuvole ed il panorama, sempre uguale di colline desertiche.

Quando la strada sale su una bassa collina, vengo inghiottito da una fitta nebbia, la visibilità si riduce a pochi metri; poi, appena torno a valle, la nebbia scompare e rimane solo la cupola di nuvole.

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Raggiungo il bivio per Caral che sono le 16:30 e il dilemma è: entro o non entro? Ma sì, entro! Fintanto che viaggio con la moto e non (ancora) con i pullman, ne devo approfittare …

L’asfalto lascia il posto a un “duro” che diventa via via malmesso e sempre più pieno di buche. Il paesaggio è splendido di vegetazione e montagne desertiche e di roccia nera all’orizzonte. Incredibilmente, non appena mi allontano un minimo dal mare, la cappa grigia lascia il posto al cielo azzurro. Avevo dimenticato questo colore, negli ultimi giorni!

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Il “duro” corre, dopo 20 km supero due motociclisti fermi a lato della strada. Con la coda dell’occhio noto che sono fermi in corrispondenza di un bivio. Vuoi vedere che è il bivio per Caral e io sto proseguendo nella direzione sbagliata?
Torno indietro, chiedo ed effettivamente è così, il bivio per Caral è quello dove si sono fermati i due, che poi sono quattro, contando le rispettive fidanzate.

Dopo il bivio il “duro” si trasforma in una pista molto accidentata che supera alcuni guadi, fino ad arrivare in una piana circondata dalle montagne. In lontananza si vedono le piramidi di Caral.

Il sito attualmente è in fase di ispezione e scavo, quindi è proibito addentrarsi non accompagnati. La nostra guida in realtà è un archeologo e parla anche un discreto italiano perchè ha studiato a La Sapienza di Roma, ha lavorato con degli archeologi italiani ed ha vissuto un paio d’anni a Brescia.
Ci raggiungono una signora con le due figlie e le due coppie di motociclisti. Adesso che il gruppo è fatto, possiamo partire a seguito di Francisco, la guida-archeologo.
Il buio cala all’improvviso, rapido, ma facciamo in tempo a vedere le piramidi più alte ed articolate. E’ emozionante sentire di prima mano da chi sta effettuando il lavoro, come Francisco, le spiegazioni, ma soprattutto le congetture che ci sono dietro le interpretazioni che vengono normalmente date ai visitatori. Non essendoci documenti scritti, tutto è dedotto da quello che viene ritrovato. E trattandosi di una civiltà antichissima, anche i manufatti sono abbastanza elementari, senza rappresentazioni pittoriche o sculture a spiegare il significato di certe costruzioni o le tradizioni.
Tutto viene dedotto dalle pietre. Pare che adorassero il fuoco, che mantenevano in appositi spazi, chiusi all’esterno e l’organizzazione sociale era fondamentalmente teocratica, i sacerdoti detenevano il potere.

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Francisco é contento della mia presenza, perchè gli ricordo l’Italia, ha anche una sorella in Umbria sposata con un italiano.
Spiega un po’ in spagnolo e un po’ in italiano poi, un po’ perchè c’ero io l’italiano, un po’ perchè era tardi e non ci vedeva più nessuno, ci fa entrare in parti normalmente inaccessibili ai visitatori. In particolare nelle zone di preghiera, che in una parte della città sono quadrate, nell’altra sono rotonde, per questo parlano di una zona maschile (la prima, quadrata) e di una femminile (la seconda, rotonda).
Quelle rotonde sembrano dei teatri romani in miniatura: perfettamente rotonde e con poche file di gradinata.

Ormai è buio pesto, usciamo lasciando l’archeologo negli alloggi presenti all’interno del sito e facciamo carovana: l’auto con le 3 donne davanti e le 3 moto dietro. Stiamo seguendo i sentieri nella campagna, quando all’improvviso ci troviamo di fronte a un bivio. La ragazza che guida l’auto si ferma, mi fa cenno di raggiungerla:

“Dove, destra o sinistra?”

“Sinistra!”, rispondo sicuro.

Lei parte, quando da dietro uno dei due motociclisti inizia a suonare all’impazzata.

“E’ a destra!!!”

Torniamo indietro, aveva ragione, per fortuna che c’era lui!

Non so come mai, quando faccio inversione la luce abbagliante e quella anabbagliante smettono di funzionare. Ho solo la luce di posizione, che nell’oscurità totale in cui mi trovo, è del tutto inutile. Guido seguendo le luci rosse della macchina, senza vedere dove metto le ruote. Faccio i guadi seguendo il riflesso rosso dei fanali sull’acqua.
Se è così, almeno fino a quando non faccio sostituire la lampadina, non potrò più viaggiare di notte!

Torniamo finalmente sul “duro”, spengo e riaccendo la moto e, come con i computer, la luce riprende a funzionare!

I due motociclisti, uno con una custom e l’altro con una sportiva tipo ZZR 250, vanno lentissimi. Ad un certo punto, non vedo più le luci negli specchietti. Torno indietro e trovo il ragazzo con la sportiva disperato:

“Che è successo?”, gli chiedo.

“E’ uscita la catena!”

Mi chiedono se ho delle chiavi, ma per fortuna (diciamo così) negli ultimi giorni prima di partire, a Roma con la Duchessa ho mangiato pane e catena per un paio di giorni almeno. Anche a me si era sfilata e si era ingarbugliata così tanto che l’avevo lasciata in mezzo alla strada, andando a recuperarla il giorno dopo.

Riesco a rinfilare la catena in pochi secondi, guadagnando in un attimo la stima e l’ammirazione dei due motociclisti.

Gli consiglio di usare le marce basse, la prima, la seconda, di tenere il motore alto di giri andando un po’ veloce e di evitare quanto più possibile le buche, per tenere tesa la catena, ma nel giro di 3 km, si sfila di nuovo. La rimetto e lentamente raggiungiamo la Panamericana. Baci e abbracci, i motociclisti tornano al sud, io proseguo al nord con le donne. Decidiamo di fermarci a Barranca, una cittadina vicina.

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Troviamo l’albergo e passiamo la serata a ridere e scherzare nel ristorante dell’albergo. In particolare la signora mi fa morir dal ridere, quando mi prende in giro “sulla tua motita, tr-tr-tr-tr-tr!!!” e lo dice mimando me che tengo stretto il manubrio, sconquassato dalle vibrazioni! E non si capacita che su quella motita abbia potuto fare così tanta strada! TR-TR-TR-TR-tutto-vibra e giù a ridere! 🙂

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(Efect…che??)

Domani il piano è arrivare a Truijillo, sempre più verso l’Ecuador e il primo esame a cui dovrò sottostare senza i documenti necessari.

Finalmente Lima!

Oggi non voglio pensare ai problemi del viaggio. Ieri l’ho persa per schizzare da un consolato all’altro, oggi voglio dedicarmi alla città.

Prima però, devo risolvere il problema del bagaglio in più. Voglio chiedere sia a Fedex che a DHL quanto costa spedire un pacco in Italia, più o meno di 8 kg. Sono entrambi a Miraflores, trovo prima Fedex, 350 dollari. Poi vado da DHL: 420 dollari. Non male!

Nel frattempo ripenso alle parole della reception dell’albergo:

“Mi devi pagare una notte!”

“Sì, lo so …”, rispondo mentre sto uscendo.

“Ah, quindi ritorni!”, mi dice con tono più tranquillo.

“Certo che ritorno …”, rispondo pensando a stasera.

Forse lei intendeva “ritorni tra poco” e mi torna in mente quello che mi disse l’altra tipa alla reception quando arrivai ieri, che se volevo stare una terza notte dovevo dirglielo, perchè aveva molte richieste e doveva fermare la camera. Io mi sono dimenticato di confermare, lei di ricordarmelo.

Chiedo la cortesia alla mia amica di telefonare all’albergo, visto che sono in giro per chiedere della spedizione, dopo 5 minuti mi richiama e conferma la mia paura:

“Devi liberare la camera, per stanotte sono completi e non hai la stanza”

Torno di corsa in albergo; per fortuna un ostello nella stessa strada ha posto, ma perdo un mare di tempo per chiudere i bagagli e spostare tutto. Alla fine, la mattinata se n’è andata tra corrieri e albergo. Meno male che dovevo dedicarmi alla città!

Esco di nuovo e prendo un taxi al volo, destinazione Museo dell’Oro! Il piano terra è traboccante di armi di ogni tipo, foggia, provenienza, lavorazione. Non mi piacciono, tranne poche eccezioni in cui il lavoro artistico sovrasta il significato di morte che comunque associo ad ogni arma.

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(l’Ipocrisia: due mani che si stringono, come manico di un pugnale)

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(particolare della decorazione di una katana giapponese)

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L’esposizione dei gioielli e manufatti in oro è nel sotterraneo. Sarà l’umore guastato dalla notizia del passaggio di proprietà negato, sarà che continuo a trovarmi addosso guardiani che mi vietano di scattare fotografie, sarà il tempo, non lo so, comunque il museo non mi emoziona particolarmente, a parte pochi pezzi davvero incredibili come lavorazione e decorazione.

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Esco e prendo un altro taxi al volo, stavolta per il Museo Archeologico. Questo lo trovo bellissimo, pieno com’è di opere pre-colombiane che rappresentano scene di vita quotidiana, lavori, animali, persone. Trovo questa rappresentazione del quotidiano molto più interessante ed emozionante che non, ad esempio, gli eccessi e la monotonia dei quadri e delle opere coloniali: una sequenza di ritratti di parrucconi in pose statiche e scontate. Che differenza abissale!

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Esco aspettando la mia amica e il fidanzato nella piazza davanti al museo, mangiando anticucho e trippa alla brace, buono!

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Facciamo un giro in centro in auto, poi a piedi fino alla Plaza de Armas, con alcuni palazzi ben restaurati, dai balconi in legno intagliato. Mi piace Lima, almeno quello che ho visto ha dei bei palazzi eleganti, ampi spazi e un po’ di verde. Il traffico è da censurare, molto caotico.

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La giornata finisce a Callao, passeggiando sul lungomare (anche qui, come a L’Avana, si chiama Malecon), mangiando picaron e poi a casa dei genitori della mia amica, chiacchierando fino a tardi del Perù, delle sue bellezze, dell’Italia e del mio viaggio.

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(cuidame!!)

Domani … si parte, verso el Norte! Ci provo ad entrare quanto meno in Ecuador, almeno voglio vedermi sbattere la porta in faccia prima di rinunciare così al giro che avevo pensato!

Fine della corsa??

Anche oggi mi sveglio intontito, non mi sento riposato. Come al solito prendo il telefono e leggo le mail.

DOCCIA FREDDA dal Cile: Nicola mi dice che il passaggio di proprietà da lui a me è stato respinto!! Panico, e ora??

Salto sul letto e inizio a chiedermi cosa posso fare. Penso che devo approfittare di essere a Lima per chiedere ai consolati dei Paesi che mancano, se i documenti che ho sono sufficienti per entrare. Mi viene da ridere al solo pensiero di dover spiegare la situazione (moto non mia, prestata, autorizzata e tutto il resto) nel mio spagnolo zoppicante.

Prima tappa, il Brasile che è qui a Miraflores. Mi liquidano subito in maniera gentile ma categorica: serve l’autentica della dichiarazione notarile da parte del consolato brasiliano di Santiago del Cile. In poche parole, quello che ho fatto per il Perù.

Il successivo è la Colombia, che chiude alle 12. Mi accoglie una signora gentile, ma un filo aggressiva. Finisce per farmi il cazziatone: ma come, parti per un viaggio del genere e non ti informi nemmeno su che documenti servono per entrare nei vari Paesi??? Cerco di spiegarle che lo so cosa serve e che il piano era diverso, del passaggio di proprietà da Nicola a me, ma confondo ulteriormente le idee e vedo che si sta innervosendo sempre più e le dico di dimenticare quello che ho detto.

Mi liquida dicendomi che “Ormai è tardi, dalla Colombia non mi rispondono più. Lunedì e martedì è festa, se vuoi avere una risposta ufficiale, torna mercoledì”.

Sì, buonanotte! penso mentre ringrazio ed esco.

Prossima fermata, l’Ecuador. C’è di nuovo una signora, ma molto più gentile e disponibile di quella colombiana. La risposta è identica, ossia potrebbero respingermi alla frontiera, però detto con molta più cortesia. In tutti questi anni di viaggi, ho riscontrato che spesso le ambasciate e i consolati sono lo specchio dei Paesi. Sento che l’Ecuador mi piacerà, ma non vorrei fossero le ultime parole famose.

Ultima tappa, il Venezuela. Mi accoglie, si fa per dire, ancora una donna, gentile come un militare arrogante e scocciato:

“Che vuoi? Ah, dalle 2 in poi”, dice anzi declama minacciosa mentre esce e si allontana sul marciapiede.

Mancano 5 minuti alle 2, ma non faccio storie. Sarà figlia del regime di Chavez e del suo figlioccio Maduro …

Decido di non correre rischi e tornare alle 2 e mezzo.

Faccio un giro lungo avenida Arequipa e mi rendo conto che nella fretta di stamattina non ho preso la macchina fotografica, che per me è quasi uscire senza scarpe. Oggi niente foto quindi!
Passo davanti a eleganti villini ottocenteschi e alcuni parchi pubblici ben tenuti.

Arrivo fino ad una manifestazione. Inizialmente penso all’ennesima parata per l’indipendenza del Perù, poi mi accorgo che sono dei medici che protestano per l’esternalizzazione (sarà una forma di privatizzazione?) delle prestazioni mediche. Tutto il mondo è paese …

Torno al consolato venezuelano, stavolta ci sono due tipi in giacca e cravatta nera e camicia bianca che accolgono le 3 o 4 persone in fila fuori: loro all’interno della cancellata (chiusa) e noi fuori, sul marciapiede. Parliamo attraverso le sbarre, ognuno esponendo il suo caso, accavallando la voce a quella del vicino.

“Che ti serve?”

“Sto facendo un viaggio in moto e devo entrare in Venezuela, vorrei sapere se i documenti che ho sono sufficienti o serve altro”

“Torna lunedì, adesso non ci sono le persone dei documenti”

“Ma oggi non è aperto fino alle 5?”

“Sì, ma adesso non ci sono le persone che servono a te, torna lunedì”

Fine delle comunicazioni.

Torno in albergo affranto, pensando alle possibilità che ho per proseguire il viaggio.

Le uniche che vedo sono:
  – proseguo sperando che mi facciano entrare nelle frontiere “spagnole” (Ecuador, Colombia e Venezuela) usando la dichiarazione che ho e facendo, nel frattempo, l’autentica a Santiago per il Brasile, da farmi spedire da qualche parte, una volta pronta
  – tornare fino in Cile, fermandomi lungo la strada per visitare i posti che ho saltato finora, entrare in Cile, spedire la moto a Nicola e proseguire in aereo direttamente in Brasile, poi là con i mezzi locali

Altre idee non mi vengono …

Passo il resto del pomeriggio in albergo, scrivendo e pensando.

Questo proprio non ci voleva … è vero che il viaggio comunque prosegue e non è morto nessuno, però vedere il piano che avevo in testa infrangersi in questo modo è davvero amaro.

Vediamo se la notte porta consiglio, domani comunque la dedico a visitare Lima, visto che la giornata di oggi l’ho praticamente buttata.

Dal paradiso di Paracas alla metropoli di Lima

Stamattina non riesco a carburare, dò la colpa alla medicina che ho preso ieri sera per il mal di testa, dovuto penso alla mancanza di sonno degli ultimi giorni, dalla levataccia alle 4 per Machu Picchu in poi.

Lentamente e faticosamente riprendo coscienza e mi alzo. Sto per andare in bagno quando faccio letteralmente un salto all’indietro: la porta della stanza è socchiusa!!

Mi guardo intorno, cerco e controllo e non manca nulla. Non vorrei suggestionarmi, ma da come mi sento intontito e dalla porta aperta, mi verrebbe da pensare che mi abbiano narcotizzato, ma penso siano solo fantasie perché anche oggetti molto evidenti, come il tablet sul tavolino, portafogli e altro sono esattamente al loro posto. Sicuramente sono ancora i postumi della medicina e della stanchezza non recuperata.

Mi preparo con molta calma poi, una volta che la moto è carica ed ho salutato il mitico proprietario dell’ostello, parto e vado a fare un giro nella parte più orientale di Paracas.
Passo a fianco della consueta (ne ho viste molte da quando sono in Perù) parata di festeggiamento per l’indipendenza del Paese e proseguo sul lungomare che diventa, man mano che mi allontano dal centro, sempre più elegante di ville lussuose con parchi, piscine ed architetture moderne ed eleganti.

La strada piega a seguire la baia di Paracas e termina nel resort dell’Hilton.
Provo ad entrare nella parte di spiaggia libera proprio a fianco del resort, quando da una villa poco distante sento e soprattutto vedo due molossi da guardia abbaiarmi e corrermi incontro.
Ok, infrango la promessa di dare un calcio al primo cane che prova ancora ad aggredirmi, però inizio ad essere stanco di questi cani che ovunque vado mi corrono dietro desiderosi di assaggiarmi!

Chiedo ad un operaio al lavoro in una villa come faccio ad andare all’ingresso della Riserva di Paracas, che vedo al di là di un’ampia parte recintata di sabbia, senza dover fare il giro lungo almeno una ventina di km che torna a Paracas e prende la strada locale lì vicino:

“Chiedi all’Hilton, loro hanno una via privata che taglia questa parte di sabbia e arriva sulla strada di ingresso alla riserva”.

Faccio i 100 metri indietro fino al gabbiotto dell’Hilton e chiedo. Il guardiano sorride e alza la sbarra. Gracias amigo!

Arrivo all’ingresso della riserva, pago i 5 soles di ingresso ed entro. L’asfalto scompare e prende il suo posto un “duro” sabbioso e umido che si addentra tra le dune. La Riserva di Paracas è un deserto costiero molto ampio, di dune sabbiose dai colori ocra e marrone, almeno così appare sotto la cappa di nebbia che anche oggi opprime il cielo.

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E’ suggestiva e, probabilmente per via del tempo, malinconica e desolata. Seguo tutte le indicazioni per le varie attrazioni, come la spiaggia rossa, che è davvero di sabbia rossa per un minerale presente nelle rocce intorno, poi la Cattedrale, che era un arco di roccia sul mare, ma che dopo il terremoto del 2007 non esiste più, poi altre playas fino a Lagunillas.

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Questo è un microscopico villaggio dove, se ci sono 5 pescatori, ci sono 10 ristoranti di pesce. Comunque dà l’idea di come dovevano essere i villaggi di pescatori prima dell’avvento del turismo: poche baracche dove vivono i pescatori, le rispettive barche ancorate nella baia di fronte e nulla più. Qui si è salvato (a parte i 10 ristoranti 😉 solo perchè si trova all’interno della riserva, altrimenti avrebbe fatto la fine degli “ameni villaggi di pescatori” (usando l’espressione cara alle guide turistiche per attrarre le persone) di tutto il mondo, dove di pescatori non c’è più nemmeno l’ombra e le baracche sono state sostituite da alberghi più o meno eleganti.

Non volendo, arrivo a Lagunillas che sono le 13:30: se non mangio adesso, quando mangio? Mi concedo quindi un bel pranzo a base di polpo, gamberi, vari molluschi e altre prelibatezze, accompagnato dalla buonissima “chicha morada“, tanto per non bere sempre Inca Kola e mi rimetto in viaggio.

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Esco dalla riserva sulle note del bellissimo album “Indossai” di Alessandro Grazian nelle orecchie, trovo che le sue orchestrazioni e melodie ben si addicano al paesaggio e al clima e riprendo la Panamericana sulle note crescenti e esaltanti di Chiasso.

Prima di raggiungere la statale, incrocio un gruppo di moto “occidentali”, sembra quasi una visione. Saluto, a bordo della minuscola Pollita.

La Panamericana dopo Chincha diventa sempre più brutta di borghi industriali e caotici che sembrano cresciuti spontaneamente e disordinati ai bordi della strada. Sempre sotto il cielo plumbeo che pesa sulla testa da stamattina, con la pioggerellina tipica, la nebbia del mare, come l’aveva chiamata il proprietario dell’ostello di Paracas.

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Arrivo in vista di Lima che ormai è buio, sulle note energiche degli Invers per tenermi sveglio.
Pretendo, in una metropoli sterminata come Lima, di trovare la zona di Miraflores senza cartina e senza GPS che ormai non funziona più dai giorni di La Paz, ma alla fine arrivo, mi sembra anche più rapidamente rispetto a come andò a Santiago quasi un mese fa.

Raggiungo l’albergo, che si presenta con un inquietante cartello di chiusura per problemi con non so quali leggi.

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Mi scaravento in doccia, che il mio corpo aspetta desideroso ormai da alcuni giorni e consegno il tablet che portavo dall’Italia alla sorella di un’amica (storia lunga … 😉 però ormai il soprannome di moto-tablet rimane acquisito!
Vado a mangiare un boccone, prima di crollare a letto esausto.

Domani vorrei visitare come minimo il Museo de l’Oro e quello Archeologico, poi si vedrà!

Un po’ di riposo tra cormorani, pinguini e leoni marini

Oggi riposo … per modo di dire, perché la sveglia è alle 7, destinazione islas Ballestas!

Perché si parte così presto? Non so, visto anche che a quell’ora il cielo è coperto da una pesante coltre di nubi e cade un pioggerellina finissima, impalpabile.

“E’ la nebbia del mare!”, mi spiega il gestore dell’ostello dove alloggio.

Bel clima, mi dico! Ma dimentico sempre che siamo in inverno …

Il gruppo è nutrito e quando arriviamo al porticciolo di Paracas, scopro che siamo in numerosa compagnia: ci sono almeno altri 3 gruppi di una trentina di persone, ognuno diretto ad un motoscafo. Partiamo tutti insieme. Forse è per una ragione di sicurezza, se a uno succede qualcosa, ci sono altre imbarcazioni pronte a soccorrerle, ma secondo me sarebbe meglio distanziarle un minimo e far fare (l’eventuale) lavoro di sicurezza in mare ad una Guardia Costiera.

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Fatto sta che tutti i motoscafi si avviano più o meno all’unisono, prima tappa, il Candelabro. É una figura creata sul terreno (tecnicamente si chiama geoglifo) come le linee di Nasca, ma mentre queste ultime sono state studiate in tutti i modi, questo invece no, per cui non si nemmeno se è coevo o di altra epoca rispetto alle linee.

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E’ impressionante e incredibile vedere queste figure enormi, pensare alle persone che le hanno ideate e create e, naturalmente, viene da chiedersi … perché? Cosa volevano fare, comunicare?
La guida ci dice che nonostante sia fatta praticamente nella sabbia, ha resistito nei millenni perché qui non piove mai e il vento arriva sempre da terra.

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La prua punta nuovamente in mare aperto e andiamo alle isole Ballestas.

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In pratica sono due scogli disabitati, nel senso che sono piuttosto piccole e letteralmente coperte di uccelli: cormorani di diverse varietà, pinguini di Humboldt e molti altri volatili che non conosco; in più, ci sono i leoni marini. Che passano il tempo, con tutto lo spazio che c’è, a starsi uno addosso all’altro e a cercare di mordersi. Forti!

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Giriamo intorno alle isolette raggiunti dalla fragranza del guano che si raccoglie a tonnellate quando, passando sotto un arco, sento come uno spruzzo d’acqua addosso.
Penso ad un’onda, poi però mi dico che sono al centro della barca e siamo quasi fermi, ma soprattutto mi guardo … sono stato centrato da un simpatico volatile! Ho schizzi molto acquosi e biancastri sul cappello ma soprattutto sulla giacca e un minimo sulla macchina fotografica.
Sulla giacca il guano va ad aggiungersi a:
  – smog e polvere di migliaia di km
  – una parte di una melassa appiccicosa che era un integratore comprato a Roma prima di partire e poi
  – un abbondante bicchiere di Inca Kola che mi sono rovesciato addosso ieri all’aeroporto di Nasca.
Un bel mix saporito!

Torniamo al porto e gli animali ci regalano un ultimo spettacolo: prima un leone marino insegue la barca, esibendosi in acrobazie di salti fuori dall’acqua e immersioni e poi diversi stormi di cormorani e di gabbiani ci seguono a breve distanza, volando velocissimi a pochi cm dall’acqua, alzandosi ed abbassandosi in sincrono sulle onde, una vera danza.

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Dietro al porto faccio colazione con succo di frutta fresca e una fetta di torta, poi vado a riposarmi in ostello.

Nel pomeriggio passeggio sulla spiaggia, praticamente deserta a parte qualche turista, osservando ancora un po’ di uccelli e meduse enormi arenate sulla sabbia, poi proseguo il riposo in ostello, approfittandone di un wifi finalmente decente.

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Esco per cena, ma prima devo comprare qualcosa per il mal di testa. Le mie medicine sono talmente sepolte nella sacca a cilindro che non mi va di prenderle! Chiedo informazioni ad un signore che gentilmente mi accompagna mentre scambiamo quattro chiacchiere.
In farmacia:

“Vorrei qualcosa per il mal di testa, per favore”

“Mal di testa forte?”

“Sì, molto forte …”

“Ok, quante ne vuoi?”

“Prego?”

“Le pastiglie …”, mi dice, prendendo in mano un paio di forbici e una confezione di compresse. Al che capisco e rispondo:

“Una … anzi no, due, non si sa mai”

In molti paesi esteri si trova questa abitudine di darti le compresse che desideri, non per forza tutta la scatola. Magari lo facessero anche in Italia! Mi ricorda una scena epica di “Un giorno di ordinaria follia” 😉
Invece periodicamente mi ritrovo a svuotare i cassetti e buttare molti medicinali (con spreco di soldi, inquinamento, ecc) per via di confezioni irragionevolmente grandi.

Ho deciso di dedicare la serata allo studio dello spagnolo. Non mi porto nulla, né telefono, né cartine o altre distrazioni: solo il dizionario spagnolo con la grammatica in appendice.
Mi siedo nel ristorante fronte mare, faccio in tempo ad aprire il dizionario, quando al tavolo a fianco si siede una coppia con cui avevo scambiato due chiacchiere stamattina sulla barca in gita alle Ballestas. Mi invitano al tavolo, addio spagnolo perché sono inglesi e iniziamo a parlare ovviamente nella loro lingua, che per me è immensamente più facile, però non mi aiuta nel mio obiettivo spagnoleggiante.

Lui si chiama Sanjay, è nato a Londra, ma i suoi sono delle Mauritius:

“Ah, Sanjay, un nome indiano!”

“Sì, per via dei miei genitori …”

E lei: “Ah sì, Sanjay è un nome indiano??”

E meno male che stanno insieme …

E domani … Lima!! La terza (e ultima!) capitale sud americana in un mese che sono in viaggio 🙂

A Paracas, nel segno della vigogna

Avrei potuto dedicare questa giornata alle incredibili Linee di Nazca o ad una delle più belle strade che abbia mai percorso, però … le vigogne sono splendide e protette, per cui la dedico a loro.

Mi metto in moto abbastanza presto, con addosso quella sensazione morbida di sonno non ancora passato del tutto. L’aria è fresca e il cielo azzurro brillante. Metto nel casco uno degli album che preferisco di Paolo Conte, Paris Milonga, che inizia con la meravigliosa Alle prese con una verde milonga.

” La vera musica, che sa far ridere,
e all’improvviso ti aiuta a piangere”
(tratto da “La vera musica”, contenuta in Paris Milonga, Paolo Conte)

Uscendo da Puquio la strada si riporta in quota, per non perdere l’abitudine all’alta montagna.

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Percorro altre gole e supero altre montagne, finché non arrivo a un centinaio di km da Nasca, dove si trova l’area protetta Pampa Galeras, santuario delle splendide vigogne. La moto è a pieno carico e oggi mi aspettano diverse cose da fare, però una breve escursione non me la nego.
Già lungo la pista ne incontro diverse, in lontananza ne intravedo molte altre. Sono bellissime e nemmeno troppo spaventate dalla mia presenza, anche se comunque, per sicurezza, si allontanano in tutta fretta.

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Torno sulla strada principale ed inizio la lunga discesa verso Nasca. Mi ritrovo così su una delle strade più belle, scenografiche, emozionanti e divertenti che abbia mai percorso. Inizia prima con il percorrere una stretta gola, con un piccolo torrente sul fondo, poi abbandona la gola e si apre da un lato su una duna di sabbia altissima e dall’altro su una serie di montagne che si rincorrono fin oltre l’orizzonte. La strada prosegue poi con una serie infinita di tornanti, fino ad impegnarsi a superare l’ultima serie di basse ma tortuosissime colline prima della piana dove si trova Nasca.

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Strada spettacolare che mi fa vivere uno di quei momenti di esaltazione in cui ritrovo conferma della superiorità assoluta del viaggio “on the road”, per vivere e scoprire al 100% i posti che si visitano e della moto come IL mezzo per eccellenza, che unisce il divertimento della guida “fisica” alle emozioni dell’immersione totale nel paesaggio circostante.

Atterro a Nasca dopo decine di km di curve e tornanti e passo di fronte al sito archeologico sugli acquedotti. Mi aspetto il classico acquedotto romano ad archi, invece mi trovo davanti a delle buche elicoidali, ricordano il guscio delle lumache, sul cui fondo scorre l’acqua, limpida e cristallina.
Quando arrivo, una giovane insegnante sta cercando di catturare l’attenzione di una quarantina di bambini che pensano a tutto, tranne che all’antico acquedotto di Nasca.

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Dopo un paio di settimane riprendo la Panamericana che avevo abbandonato in Cile e vado verso Lima.

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Purtroppo la cartina è sbagliata e devo tornare a Nasca per andare all’aeroporto e provare a guardare le Linee di Nasca dall’alto. Questo errore mi costa 50 km in più, anche se riesco brevemente a visitare il museo dedicato a Maria Reiche, che studiò le linee per tutta la vita.

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Vado all’aeroporto, non sono nemmeno sceso dalla moto che vengo accalappiato da un impiegato (tra le proteste di quello di un’altra agenzia, arrivato un istante dopo) di una delle 9 agenzie turistiche che organizzano il volo aereo sopra le linee.

“Quanto costa il volo?”, chiedo al tipo.

“250 soles”

“Facciamo 200”

Mi guarda come se l’avessi offeso, poi rilancia:

“230 solo perchè sei tu!”

“Vabbè, 220 …” contropropongo.

“OK … sei un buon contrattatore eh?!”

Insomma … anzi, proprio no.

Sono le 16 e ancora non ho mangiato, mi metto in pari con due empanadas di carne e una Inca Kola.

Finalmente si parte e per la prima volta in vita mia salgo su un trabiccolo mono-elica. L’aereo non mette a proprio agio, è microscopico e leggerissimo, basta uno starnuto e si muove tutto.

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Decolliamo e il pilota, per far vedere bene le figure sia a chi è seduto a sinistra, chi dall’altro lato, vira vorticosamente  e si mette quasi in verticale. Tre o quattro giri ed ecco il mio stomaco chiedere pietà, per poi minacciare di cacciare fuori tutto quello che ho mangiato.

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(la Balena)

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(l’Astronauta)

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(la Scimmia)

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(il Cane, è in verticale, sulla sinistra)

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(il Colibrì)

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(il Ragno)

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(il Condor)

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(l’Albero)

Il mio stomaco è ormai allo stremo quando il pilota propone un fuori programma, sorvolare … li acquedotti di Nasca! Tutti sono entusiasti, tranne me, visto anche che li ho già visitati!

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Comunque, concentrandomi su un punto all’orizzonte riesco a resistere, poi finalmente il volo finisce con un atterraggio perfetto, tra l’altro.

Riprendo la Panamericana che ormai è il tramonto e chiudo la giornata al buio, come al solito.

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La strada è lunga, ma anche questa finisce, arrivo al bivio per Paracas, la strada punta al mare e me ne accorgo dal profumo di salsedine che sento nell’aria. Mi butto nel primo ostello che trovo e, un istante dopo, a letto, sono stanchissimo.

Domani, voglio visitare le isole Ballestas e non so cos’altro, vediamo cosa succede!

Cammina cammina … fino a Puquio

Oggi è il giorno del progetto impossibile, Cusco – Nasca in tappa unica. Però, ci voglio provare lo stesso!

Incredibile ma vero, alle 8:30 sono in sella, lavato mangiato e bagaglio montato: da segnare sul calendario!

La strada inizialmente corre su una pianura circondata dalle montagne, poi inizia ad addentrarsi nelle alture. Più mi avvicino ad Abancay, più le curve si stringono fino a diventare una sfilza di tornanti.
Ad un certo punto ci sono i lavori stradali a fiaccare le mie deboli speranze di arrivare in serata a Nasca. Sono tutti fermi, sembra da parecchio. Senso unico alternato.

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L’attesa dura 40 minuti, durante i quali parlo con un tipo simpatico alla guida di un SUV. Dice che lavora per una grande miniera di Ayacucho. Estraggono argento e oro, rispettivamente, 3 tonnellate e 240 kg al giorno e ci lavorano 3mila persone. Niente male!
Mi dice che il peggio non sono i 40 minuti che stiamo aspettando, ma è il fermo programmato di 2 ore della circolazione poco più avanti. Sempre per la consuetudine di buttare all’aria tutto per fare i lavori, invece di finirne un pezzo alla volta.

Finalmente passiamo e capisco perchè il senso unico alternato è durato così tanto: inglobava il casello per il pagamento del pedaggio stradale! Quindi di mezzo c’era pure il tempo della coda per pagare, cercare i soldi, il resto, ecc. Geni!

Arrivo alla zona del blocco. Si riconosce facilmente, perchè la strada è sbarrata e la gente sta bivaccando fuori dalle macchine e dai camion. Chi improvvisa un pic-nic, chi si sdraia a prendere il sole, i più parlano. Se in Italia bloccasero, che so, la Cassia per due ore, credo che salterebbero fuori le armi pesanti!

Mi avvicino alla barriera, guardando un operaio. Questi capisce il mio sguardo e mi dice:

“Puoi passare, però vai piano e stai attento ai mezzi pesanti”

Ringrazio e passo, ritrovandomi in mezzo ad un cantiere con enormi camion che fanno poco caso a me, anzi, sembra più che vogliano spiattellarmi sotto al rullo compressore o schiacciare con uno dei caterpillar in azione.
Riesco a dribblare tutti e a non cadere sul fondo di pietre e torno finalmente sulla strada. Il paesaggio adesso è molto più “canonico” ossia con alberi e vegetazione e campi coltivati.

Dopo diversi km, la strada era in una gola. A causa delle frane, molti pezzi di asfalto non ci sono più e procedo su pista. Passo anche attraverso alcuni piccoli guadi. Il tutto non fa che rallentare la marcia ed allontanare sempre l’idea di arrivare fino a Nasca. La vegetazione è folta e fa molto caldo. Me l’ero dimenticata questa sensazione. Sembra impossibile che sia partito dal freddo di Cusco solo poche ore fa!

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Dopo Abancay la strada si distende in una profonda gola. Corro a fianco di un piccolo fiume impetuoso intorno ai 3200 metri sul livello del mare. Poi evidentemente il corso del fiume segue una direzione diversa e la strada inizia ad arrampicarsi sulle montagne, iniziando un continuo di salite e discese fino a Chalhualpa.

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E’ ancora presto e non mi va di fermarmi qui per la notte. Inizio a parlare con un tizio sulla sessantina ad un distributore di benzina. Secondo lui se parto adesso, posso raggiungere la prossima cittadina, Puquio, intorno alle 18/18:30.

Confesso che non ho ancora abbandonato l’idea di raggiungere Nasca entro oggi, fosse anche in nottata.

La strada, se possibile, si arrampica ancora di più. Raggiungo i 4500 metri e ci resto per un bel po’. Il sole tramonta ed il freddo aumenta terribilmente, diventando pungente e doloroso sulle mani e sui piedi. Il GPS dice che sono arrivato a 4560 metri. Ai lati della strada la neve, nei campi molti lama che brucano.

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Il tramonto è splendido, rosso e arancio sulle nuvole in cielo e riflesso sui laghetti d’alta montagna che circondano la strada. La luna sorge alle mie spalle, piena, luminosissima.

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Continuo la corsa notturna, pensando al tipo che mi aveva detto che alle 18:30 al massimo sarei arrivato. Passo un paio di punti di controllo sulla strada. Per fortuna nessuno controlla nulla, vogliono solo scambiare due chiacchiere.

Finalmente Puquio si manifesta dietro una cresta di montagne.

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Nel giro di mezz’ora arrivo, sono stanchissimo.

Trovo un albergo nella plaza de Armas e vado a farmi un ottimo pollo allo spiedo, innaffiato dall’ormai consueta Inca Kola. Sarà la fame, ma mi sembra uno dei migliori polli allo spiedo mangiati negli ultimi mesi … che dico, anni!

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E domani … linee di Nazca e, credo forse chissà, Paracas!

La meraviglia di Machu Picchu

La sveglia urla alla massima potenza già da qualche minuto quando riesce a farmi emergere dal sonno. Sono le 4 appena passate. Doccia e colazione, sono fuori all’ora prevista, le 5. Caso più unico che raro.

Mi accompagna il tipo dell’albergo per aiutarmi a trovare il biglietto d’ingresso a Machu Picchu. Arriviamo di fronte all’ufficio, ci sono già una ventina di persone in attesa.

“AHI!!” esclama il mio accompagnatore.

Mi metto in fila nel momento in cui l’ufficio apre.

“Aspetta un attimo”, mi dice mentre si infila all’interno.

Esce dopo poco, dicendomi con aria non troppo convincente:

“I biglietti ce li hanno: lo fai, poi vai a comprare l’autobus per salire al sito”

Speriamo!

La fila scorre abbastanza velocemente, arriva il mio turno. Pago 128 soles (più o meno 35 euro) e mi ritrovo col biglietto per Machu Picchu. Non mi è sembrato così difficile, non capisco tutta questa incertezza e mistero e soprattutto ieri sera la tipa delle ferrovie, che non voleva farmi il biglietto del treno se non avevo l’ingresso per Machu Picchu! Forse hanno un numero limitato di biglietti, non mi dò altra spiegazione né la cerco, mi va bene così!

E’ ancora buio quando ho in  mano anche il biglietto andata e ritorno in autobus. La salita è veloce, prima sul fondo della gola a fianco del torrente, poi sul fianco di una montagna, tornante dopo tornante sfiorando i pulmini che nel frattempo ridiscendono.

Alle 7 sono su.

Entro e l’impatto è forte, perchè si ha già una visione d’insieme dell’intero sito con le montagne alle spalle. La tentazione di iniziare a girare tra le rovine è forte, ma resisto e mi arrampico a casaccio lungo un sentiero sulla sinistra. Più per istinto che altro. Provo a chiedere a una coppia di francesi dove si va per dove stiamo salendo, ma non mi rispondono nemmeno.

Per fortuna è il punto che speravo, panoramico dall’alto su tutto il sito. Mi siedo ed inizio a concentrarmi, mentre il sole sale da dietro le montagne e appare intorno alle 7:15.

E’ difficile esprimere a parole sia le emozioni che la loro intensità. Se si riesce a isolarsi dal resto ed entrare in contatto con il luogo, l’insieme diventa commovente. Forse è talmente la bellezza o la sua ancestralità o la commistione così perfetta tra bellezza naturale e opera dell’uomo, fatto sta che il cuore e la mente non riescono a contenere un’emozione così forte che finisce per sfogarsi e allentarsi nelle lacrime. Lacrime di gioia, con il sorriso incredulo per quanto il cuore trabocca di bellezza e felicità.

Il sole sorge e illumina prima le montagne alle spalle della cittadella, poi la cittadella stessa, un po’ alla volta. E questa cambia, cambia in continuazione col passare delle ore e l’evoluzione delle ombre e della luce.

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Rimango più di un’ora e mezzo seduto ad ammirare quello che ho davanti agli occhi. Le persone vanno e vengono, si chiamano, urlano oppure stanno in silenzio come me, ma nulla più importa, perché non entrano nella mia visione. Può essere difficile raggiungere la piena consapevolezza di essere “qui e ora”, soprattutto quando le emozioni sono così intense.

Quando sento di essere pronto, soddisfatto, mi alzo e mi avvio verso la Porta del Sole, un altro punto panoramico lontano alcuni chilometri. Voglio ancora ammirare dall’alto le rovine di Machu Picchu, perché sento che la bellezza principale è nella comunione tra roccia e montagna, tra natura e uomo e si può coglierla solo guardandola nella sua interezza. Entrandoci e girando al suo interno, perderei la prospettiva d’insieme.

Passo accanto ad alcuni lama che non sono particolarmente spaventati dall’uomo e si fanno toccare senza problemi. Morbidi!

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La salita è lunga e abbastanza faticosa, ma ogni scusa è buona per fermarsi e ammirare la cittadella o le montagne circostanti da un’angolazione leggermente diversa.

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Arrivo finalmente alla Puerta del Sol e svanisce la cognizione del tempo, perdendomi prima ad immaginare come dovevano vivere gli Inca in un luogo del genere, le sensazioni che vivevano le persone che, arrivando dal fitto della foresta, si ritrovavano a superare questa porta, avviandosi nella discesa al villaggio. E poi ad immaginare la gioia incredibile vissuta da Hiram Bingham quando si accorse che sotto la foresta si trovava una cittadella perduta e sconosciuta. Scoprirla pezzo a pezzo, pulirla, ricostruire quello che vi si svolgeva, restituirla alla vita, seppur diversissima dall’originale.

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Trascorro un altro lungo tempo, poi, nuovamente, mi sento pronto. Stavolta per entrare nella cittadella, girarla dall’interno. La discesa è veloce e in breve mi aggiraro tra le antiche mura, intuendo quelle che dovevano essere templi e quelle che erano abitazioni.

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Il tempo vola e arriva il momento, purtroppo, di mettermi in fila per l’autobus in discesa. Sembra destino, ma come per il treno di ritorno di oggi, dove era rimasto solo un posto, mentre manca ancora un bel po’ per il mio turno, iniziano a chiedere ad alta voce se c’è qualcuno che viaggia solo, è rimasto solo un posto sull’autobus in partenza per Aguas Calientes.

Mi infilo e finisco a fianco di una signora statunitense, con cui inizio a parlare di Machu Picchu, degli USA, dell’Europa.

Arrivato a Aguas Calientes, ho il dubbio di riuscire a ritrovare l’albergo! Non so il nome nè tantomeno l’indirizzo perchè me l’hanno prenotato da Cusco e ovviamente non ho chiesto informazioni; ieri sono arrivato col buio e mi sono venuti a prendere e stamattina alle 5 ero del tutto incosciente e, di nuovo, col buio.
Per fortuna riesco ad orientarmi e dopo un paio di tentativi a vuoto, ritrovo il vicolo giusto.

Recupero la roba in albergo e vado alla stazione. Inizia a piovere forte lungo il tragitto del treno, ma per fortuna a Ollantaytambo non piove.

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Mangio nell’ottimo ristorante di un albergo di fronte alla stazione, recupero la moto e inizio il rientro a Cusco, in notturna.

E così, penso, eccomi di nuovo a guidare col buio. Mi piace perché sei concentrato sulla guida: solo tu e la moto. Il mondo circostante è irreale, fatto di ombre e profili tagliati dalla luce dei fari e nel buio, di tanto in tanto, emergono le luci di un villaggio o il lampo di una stella cometa che taglia il cielo.

Arrivo a Cusco, piombando sulla città dall’alto. Nella discesa al centro, conto 3 cani che mi inseguono convinti, desiderosi di addentarmi. Al prossimo che mi insegue, gli tiro un calcio, promesso! Affronto i folli pedoni attraversatori di Cusco al grido di: “ATTENTI … Che ne ho già messo sotto uno!!!”

Arrivo in albergo e preparo i bagagli per domani. L’ideale sarebbe arrivare a Nasca in giornata, per non perdere un giorno lungo la strada, ma sono troppi km, non ce la farò mai!

Alla scoperta della Valle Sacra

Stato

Oggi è dedicata interamente alla Valle Sacra di Cusco, una specie di anello ricco di siti archeologici. Come sempre, non so cosa aspettarmi perchè non ho visto nulla prima di partire, nè in Italia, nè qui.

Esco da Cusco e inizio ad arrampicarmi sulla ripida ed alta collina alle spalle della città. Arrivo con sorpresa sotto al Cristo di Cusco che ieri sera vedevo dalla Plaza de Armas.

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A poca distanza dalla statua, si entra nel primo sito, Saqsayhuaman.
Era composto da diverse linee difensive, costruite dagli Inca con la maestri già vista a Cusco: massi enormi, intagliati e incastrati con una precisione ed una perizia che ha dell’incredibile. Anche in questo caso, il sito fu praticamente smantellato dagli spagnoli per costruire case, chiese e altri edifici.

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Si gode anche di uno splendido paesaggio su Cusco.

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Già arrivando qui, ma soprattutto proseguendo verso Pisac, mi ritrovo sempre più immerso negli alberi. Amo i deserti per le sensazioni che trasmettono, ma confesso che passare tra gli alberi, riposare la vista con il verde e assaporare i profumi dell’eucalipto e il familiare odore del pino, della resina scaldata al sole e della sua essenza, tutto questo mi piace e vorrei continuasse.
Invece pare che gli alberi, nonostante l’altitudine, siano l’eccezione e passo da una macchia verde all’altra, attraverso le consuete montagne e colline spoglie.

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Dopo pochi km arrivo a Qénqo, dove si può girare in alcuni cunicoli e sale che sembrano essere state dedicate alla preghiera. Dovrò studiarlo con calma sulla guida.

Qualche altro km e arrivo a Pukapukara, costituito da un paio di piccole piattaforme proiettate su una vallata meravigliosa. Si visita velocemente, il tempo di ammirare il panorama e sentirsi per un attimo un uccello che può ammirare la terra dall’alto.

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Quasi di fronte c’è Tambomachay. Lì per lì non si capisce in cosa consista il sito, visto che ci sono solo due serie di nicchie molto grandi e delle fontane. Mi metto a riprendere fiato accanto ad una guida che racconta ai suoi clienti che le fonti servivano per purificare l’anima e il corpo e che l’acqua era sacra per gli Inca, come fonte di vita.

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Mi arrampico sulla collina di fronte alle nicchie, sperando di raggiungere altri resti, ma trovo solo un ruscello che inizio a seguire. Ha scavato un piccolo solco nel terreno e scorrendo crea il suono così rilassante e così noto nelle culture ad esempio giapponese e araba.
Lo seguo per diverso tempo, poi mi rendo conto che è inutile proseguire, mi sto solo addentrando nelle montagne e quello che cerco è proprio davanti a me. Mi sdraio e mi lascio prendere dalla pace e dalla tranquillità del luogo. Scaldato dal sole, a contatto con la terra, cullato dal gorgoglio dell’acqua che scorre a pochi passi da me.
Inizio a respirare al ritmo della terra, ma purtroppo devo riprendere la strada. Mi avvio verso valle, mentre cerco un fazzoletto in tasca. Possibile, non ne avevo uno? Non sarà caduto mentre ero sdraiato? Mi giro che ero già lontano e vedo, nera, a terra, la macchina fotografica. C’è mancato poco che la perdessi!

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Riprendo la strada, stavolta ci sono un po’ di km prima di fermarmi a Pisac, con un altro sito archeologico. La strada che percorro rimane in quota e segue sinuosa la vallata, la Valle Sacra, appunto. Mi diverto nelle curve, fino ad arrivare a Pisac, sul fondo della valle, all’altezza del fiume che ha creato nei secoli quello che mi circonda.

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Per raggiungere il sito archeologico di Pisac devo salire nuovamente sulla montagna dall’altro lato della vallata. Rimango senza parole quando vedo una serie di terrazzamenti enormi, sia per altezza che per estensione e numero. La strada termina all’ingresso del sito, che giro velocemente perchè inizia ad essere tardi. E’ davvero spettacolare e a sapere che era così bello, sarei arrivato prima. Le terrazze sono enormi, molto alte e lunghissime. Un lavoro incredibile, gli Inca non finiscono di stupirmi. Come molti popoli antichi, hanno realizzato delle opere che anche oggi, migliaia di anni dopo, ci si chiede come ci siano riusciti.

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Oltre ad essere tardi, il cielo è minaccioso. Se inizia a piovere sicuramente dovrò rallentare molto perchè le strade sono sempre unte di gasolio perso dai camion.

Torno a Pisac e proseguo sul fondovalle verso Urubamba. Si alza un vendo caldo e potente. Arrivo al bivio per Chinchero. Lo prendo, anche se il mio obiettivo è molto prima, a Maras e le sue saline di cui ho sentito parlare.
La strada è splendida, di campi dorati incorniciati da montagne possenti e, quelle più arretrate, coperte di neve. Il cielo è scuro e drammatico di nuvole, con squarci di sole a illuminare con fasci di luce il grano e la roccia.

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La strada che conduce alle saline è una pista, che punta alle montagne e precipita poi in una stretta valle.

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Resto letteralmente a bocca aperta per la meraviglia quando le saline appaiono. Meravigliose. Ricordano le vasche della lavorazione delle pelli che ho visto in Marocco, ma senza quell’odore nauseabondo.
Formano un mosaico di vasche di varie dimensioni e poste a diversi livelli sul fianco della montagna. Il cielo scuro, trafitto da raggi di luce che vanno a illuminare come spot alcune vasche e parte delle montagne circostanti, donano un’aura sacra e mistica.

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Delle gocce di pioggia mi risvegliano, tra poco inizierà a far buio e ancora non ho il biglietto del treno per Aguas Calientes.

Risalgo dalla vallata in cui ero sceso per le saline, ripercorro all’indietro la pista e torno sulla strada principale.

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Ollantaytambo è graziosa anche se molto turistica. Prelevo un po’ di soldi, mangio al volo degli anticucho cucinati in un banchetto a bordo strada, parcheggio la moto e vado alla biglietteria del treno.

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Avevo capito che c’era un treno ogni ora, invece gli orari variano molto, con parecchi buchi di diverse ore. Finalmente arriva il mio turno, trovo un buco sia per oggi (sono le 18 ma trovo posto solo sul treno che parte alle 21) e domani è rimasto un unico posto alle 16.
Pago il biglietto con la carta di credito (120 dollari l’andata e ritorno!), poi la ragazza allo sportello mi chiede:

“Ma ce l’hai l’ingresso per domani??”

“Sì, cioè no … ma dici a Wayna Picchu? Non importa, lì non voglio andarci”

“No no, proprio al sito di Machu Picchu”

“Cioè??”

“Cioè è tutto pieno domani, se non hai già il biglietto non puoi entrare, è inutile che vai a Aguas Calientes”

“E quando c’è posto per entrare a Machu Picchu?”

“Lunedì”

Oggi è sabato … non so cosa fare.

“E comunque lunedì sul treno c’è posto solo per l’andata, non per il ritorno.

“Ah, e quindi??”

“Non so, tieni, questo è l’indirizzo del sito delle ferrovie e questo del sito per prenotare l’ingresso a Machu Picchu, prenota e torna quando hai tutto”

Mi tolgo dalla fila, che ho bloccato da parecchi minuti e mi attacco al telefono con la tipa dell’hotel di Cusco, il Cusi Wasi. Stamattina nè nei giorni scorsi mi avevano detto nulla!

Le chiedo subito se per favore sente le persone che conosce a Aguas Calientes per vedere se si riesce a trovare un biglietto.

Dopo qualche minuto mi richiama:

“Non preoccuparti, c’è un ufficio, la Direccion de Cultura, che dovrebbe avere un biglietto. Gli fai vedere il biglietto del treno, gli dici che non hai alternative di tornare nei prossimi giorni, vedrai che ti fanno entrare.”

Sento che è adesso che non ho alternative. Non posso far altro che fidarmi.

Mi rimetto in fila, molto più lunga di prima. Arriva il mio turno e la tipa mi guarda con aria di scherno e con sarcasmo mi chiede:

“Hai visto su internet e hai prenotato tutto?”

“No, veramente dall’albergo mi hanno detto che riescono a trovare il biglietto”

“Ma non è possibile, non c’è posto!”

Continuiamo nel botta e risposta, non vuole farmi il biglietto. Molto probabilmente ha ragione lei e me ne pentirò amaramente, ma decido di fidarmi dell’albergo e insisto per avere il biglietto.

Alla fine me lo fa e vado alla stazione, dove mi parcheggio per un paio d’ore in un bar con wifi.

Arriva il momento di partire, a bordo ci offrono anche una bibita e uno snack. Il treno viaggia lentamente, sono curioso di vedere il tragitto che fa con la luce del sole!

Vengo accolto a Aguas Calientes con un cartello col mio nome, credo sia la prima volta in via mia!

Gli orari di domani sono: 4:00 sveglia, 4:30 colazione, 5:00 uscita, 5:20 preghiera in spagnitaliano per avere un biglietto in non so quale ufficio e poi il resto della giornata sarà tutto da scoprire.

Ieri scrivevo che non ci credevo che stavo per andare a Machu Picchu e oggi, ancora più di ieri, lo dico nuovamente. Riuscirò ad entrare a Machu Picchu???

A passeggio nella capitale degli Inca

Oggi è dedicata interamente a Cusco, anche se trascorro parte della mattinata a conversare con il portiere dell’albergo, sia per esercitare lo spagnolo, sia soprattutto per avere dritte sui prossimi giorni.

Chiarito a grandi linee cosa vedere e dove andare nella Valle Sacra, mi avvio verso il centro storico.

Tutti mi avevano detto che Cusco è una città meravigliosa, piena di monumenti e musei, ed effettivamente è vero. Potrei definirla una Firenze peruviana. Perché Firenze e non Roma, ad esempio? Perché la trovo per certi versi signorile e monumentale, con poche o nessuna parte di vicoli popolani e intrecciati.

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(Vana speranza)

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Plazas de Armas è inaspettatamente grande, circondata da portici su tre lati e raccoglie molti edifici religiosi. Di nuovo, mi è impossibile non pensare a cosa c’era qui quando gli spagnoli non erano ancora arrivati ad imporre la religione cattolica. Molti monumenti religiosi e civili inca sono stati distrutti o utilizzati come fondamenta per costruire analoghi edifici ma di matrice spagnola.

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Le mura inca sono impressionanti, costituite da massi immani ma allo stesso minutamente intagliati in modo da combaciare alla perfezione, micrometricamente.

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Dopo aver seguito l’itinerario suggerito dalla guida ed essere entrato anche in un mercato coperto, dove vendono principalmente da mangiare, inizio a passeggiare a caso.

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( Un ottimo succo di mango)

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Faccio la scoperta più interessante dell’intero giro: è il quartiere di San Blas, abbarbicato su una delle colline che dominano il centro storico. Qui si possono ancora trovare case basse e storte, con i segni evidenti del tempo a donare fascino e rispetto, molto più suggestive delle ricostruzioni asettiche e uniformi del centro.

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Arrampicandosi sulla collina si arriva ad un mirador.

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Qui incontro Hernan, fotografo colombiano che sta esponendo in questi giorni, la sua fidanzata Katia, del Salvador in America Centrale, Lucio e un altro ragazzo. Bevono tutti allegramente, mi agganciano ed iniziamo a parlare di arte. La scusa sono delle cartoline che Katia, la PR di Hernan, mi mette in mano regalandomele.

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Sono foto che ha fatto Hernan durante un viaggio in Sud America di 6/7 mesi a bordo di un vecchio Maggiolone VW. Dalla Terra del Fuoco alla Colombia, tutto “on the road”. Quando viene a sapere che sto facendo un viaggio simile, anche se in molto meno tempo e su una moto 125, impazzisce di entusiasmo e inizia a propormi alloggi e appoggi in Colombia, a Calì dove c’è sua zia e a Bogotà, dove ha casa.

Chiacchieriamo una mezz’ora, poi li saluto dandoci un appuntamento per stasera alle 21.

Entro nel museo Inca, con ceramiche, tessuti e la storia del popolo inca, poi nel museo precolombiano, di gran lunga più emozionante ed interessante. Mesi fa ero convinto che in Sud America ci fossero stati principalmente gli Inca e che le altre popolazioni fossero state minori, senza particolari espressioni artistiche e culturali. Poco prima di partire, avevo già iniziato a scoprire che c’era molto di più, le popolazioni che precedettero gli Inca erano numerose ed alcune molto complesse ed evolute.
Durante questo viaggio sto arricchendo la mia conoscenza e il museo precolombiano di Cusco è fondamentale, perché raccoglie delle testimonianze significative della cultura e dell’arte di queste popolazioni: ceramiche, manufatti, sculture, gioielli.

Trovo questi manufatti più emozionanti di quelle degli inca, perché sono ancora più incentrate sulla natura e sugli animali. Per certi versi mi ricorda la religione greca, profondamente legata alla terra ed alla natura, con le divinità a rappresentare gli elementi fondamentali nei quali l’uomo si inseriva, consapevole dei suoi limiti e della superiorità della Natura.
Il passaggio dai manufatti preincaici a quelli incaici segna un cambiamento di punto di vista, più astratto quest’ultimo. Il passaggio dalla cultura incaica a quella spagnola dei conquistadores è scioccante. Nel giro di una curva di corridoio mi ritrovo attorniato da immagini di santi feriti in ogni maniera e sofferenti, crocifissioni, santi emaciati a guardare imploranti verso il cielo, in attesa di un qualche tipo di liberazione.
Si passa dalla rappresentazione della sacralità della terra, quella che ci dà da vivere e ci accoglie, ad una rappresentazione emotiva della sofferenza e del martirio in nome di una divinità astratta e invisibile. Dalla concretezza degli animali e della natura all’astrattezza dei miracoli e dei dogmi. Da una forma di rispetto positivo ad una di timorosa sottomissione.

Esco dal museo che è quasi buio; mi prendo il tempo di scattare alcune fotografie al crepuscolo, di un’ultima passeggiata e poi torno in albergo a preparare i prossimi due giorni.

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Mi attendono domani la Valle Sacra e dopodomani Machu Picchu! Non vedo l’ora!!

Attraversando le montagne fino a Cusco

E’ inutile, perciò non dico né mi propongo più un orario di partenza: tanto prima delle 9:30 non mi muovo!

Saluto Alberto, incredibilmente disponibile e gentile ed esco da Puno. La strada si arrampica sulla collina alle spalle della città e in breve iniziano ad aprirsi degli splendidi paesaggi sul lago Titicaca (anche se la guida ieri ha tenuto a dire che si dovrebbe scrivere Titikaka con la k e che il suono è aspirato e in lingua aymara significa puma grigio; bene, fine del ripasso della lezione di ieri).

Mi fermo al primo benzinaio, da El Alto non l’ho più fatta. Mi metto davanti alla pompa e la ragazza afferra la pistola della 84 ottani.

“No, la 95 por favor!”, indico allarmato.

“Ma che ce devi fà, c’a 95!” o almeno il senso della sua risposta è questo oppure vuole dirmi che la 95 è terminata, fatto sta che prosegue con la 84.

Vabbè, penso tra me e me, che sarà mai.

Appena finisce di riempire il serbatoio mi torna in mente il ticchettio angosciante, quasi un urlo di dolore del Guzzi di Adriano in Kazakistan, quando batteva in testa in continuazione e così mi ricordo a cosa servono gli ottani.

Vabbè, penso tra me e me, ormai è fatta.

Riparto.

La strada corre su un altopiano reso interessante dagli scorsi sul lago alla mia destra, poi arriva il bivio per Sillustani. Ho fatto ben 20 km da Puno e ne mancano almeno 400 per Cusco, ma non è ancora tardi e poi mica posso passare le giornate soltanto a guidare! Decido di girare per il sito archeologico.

La strada si incunea nella pianura, puntando alle montagne ma senza raggiungerle.

Vedo un nuovo tipo di architettura rurale, stupenda. Sono abbastanza simili ai nostri casali di campagna, solo che sono fatti interamente in pietra, con degli archi come ingresso e decorazioni varie. I tetti in paglia chiudono il quadro agreste, senza dimenticare i piccoli gruppi (greggi?) di lama nei pressi dell’abitazione.

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Le torri funebri di Sillustani sono allo stesso tempo semplici e solenni, svettano massicce su un paesaggio intatto. Non si può far altro che ammirarle in silenzio, cercando di integrarsi per un breve attimo spazio-temporale in questa terra, in questo tempo e con la civiltà che le ha costruite, a dominare un lago che si addentra con gole e curve nelle montagne circostanti.

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Se si ha la pazienza di attendere che i pochi turisti si allontanino, ci si ritrova nel silenzio più assoluto, con le orecchie accarezzate da un vento sottile, costante, la vista che si perde nell’azzurro del lago e del cielo e la mente che cerca di capire vanamente una cultura che ha ideato dei monumenti funebri così assoluti. La complessità nell’apparente semplicità.

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Torno sulla strada per Cusco e proseguo la corsa. Di nuovo mi stupisco di come giri bene e lineare il motore della Pollita, peccato non aver incontrato il meccanico giusto a Calama, quando provai a farmela sistemare per le alte quote. Avrei patito molto meno nel tratto San Pedro de Atacama – Uyuni.

Supero il caos di Juliaca e la strada inizia ad addentrarsi tra le montagne. Il cielo diventa sempre più cupo e minaccioso, basso di nuvole sfilacciate nelle quali finisco, mio malgrado, per infilarmi.

Per fortuna la pioggia vera e propria dura pochi minuti. Più duraturo è il pulviscolo d’acqua nel quale mi trovo immerso e il freddo, che aumenta sempre più, come la quota alla quale viaggio. 3900, 4000, fino a oltre 4300 metri.

Il freddo è intenso, le mani sono quelle che soffrono di più, poi i piedi. Il corpo è ben coperto, ma dopo un po’ accusa, soprattutto perchè, non so il motivo, il giubbino elettrico da quando sono andato via da La Paz, ha smesso di funzionare bene. Se ci penso, a La Paz hanno avuto problemi o smesso di funzionare: moto, GPS, giubbino elettrico. Tre componenti fondamentali!

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Superato il passo a quota 4338 metri slm, la strada inizia a scendere e, di conseguenza, la moto ad andare a velocità di tutto rispetto (90 all’ora!).

Torna la pioggia, poi smette e mi asciugo, mentre la montagna si addolcisce trasformandosi in colline e creando una vallata dove corre un fiume, le cui sponde sono coltivate. Era da parecchio che non vedevo campi coltivati e alberi!

Il verde fa la sua apparizione e stupisce, perchè l’occhio si era ormai abituato alle sole variazioni di marrone, il verde era escluso, relegato nella memoria come i superstiti dell’Eternauta ricordano la città com’era un tempo, prima dell’attacco degli alieni.

Dopo altre decine di km, quando ormai mancano un paio d’ore a Cusco, arrivo all’area archeologica di Raqchi. Decido di fermarmi. Per fortuna, aggiungo, vista la bellezza del luogo.
Stavolta sono completamente solo e mi aggiro tra strutture di difficile comprensione, se abitazioni o strutture comuni, religiose o con altra finalità. Anche ora, il silenzio completo, rotto solo da qualche uccello in lontananza e dall’immancabile vento, cammino tra i resti delle costruzioni e pensando a che posto incredibile sia il Perù, che ha ospitato decine di culture differenti che, soprattutto, hanno prodotto opere uniche e eterne.

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( Non posso allontanarmi che subito la Pollita rimorchia due galletti …)

Riprendo la strada e mi godo, anche oggi, un bel tramonto sulle montagne.

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Finalmente arrivo a Cusco, inizio ad attraversare una periferia infinita.

Ad un certo punto, mi trovo su una strada a 6 carreggiate, 3 per parte, un uomo di bassa statura inizia ad attraversare lentamente. Io sono lanciato, la strada è larga e libera, sono l’unico in quel momento e il semaforo è verde. Sarò ad almeno 70 km/h. Quando lo vedo, capisco che è in traiettoria piena. Mi attacco ai freni, il tizio non fa il minimo cenno per evitarmi, rallento il più possibile ma alla fine gli sono addosso. Lo colpisco con lo specchietto destro e non so con cos’altro, è questione di attimi. Io non perdo nemmeno l’equilibrio, è come se qualcuno mi avesse dato una botta alla spalla, cosa che probabilmente è accaduta.

Mi fermo dopo pochi metri, mi giro e vedo che il tipo è ruzzolato a terra e si sta rialzando. Zoppica. Nessuna delle persone che ha assistito alla scena, a bordo strada, fila né me né lui. Cammina, quindi penso che non si sia fatto male e soprattutto non credo di avere un’assicurazione valida e non ho intenzione di infilarmi in un vespaio peruviano. Accelero e me ne vado.

Arrivo in centro e sono nei pressi dell’albergo che ho prenotato tramite Alberto da Puno, quando mi infilo in un vicolo strettissimo, largo quanto una macchina. Che, guarda caso, è parcheggiata con le 4 frecce lampeggianti. Abituato ormai ai costumi peruviani, suono e gli arrivo dietro. Un po’ troppo dietro. Sarà la stanchezza, ma prendo male le misure e lo tocco leggermente, la mia ruota anteriore sul suo paraurti posteriore.

Non la prende bene nè si mette a ridere, esce, ma rientra in auto senza cercare eventuali danni. Non credo mi stia dando il benvenuto a Cusco, nelle parole che mi rivolge. Arriva l’amico dopo pochi secondi e evidentemente si innervosisce di nuovo. In ogni caso l’amico, una volta saputo l’accaduto, vede che non c’è il minimo danno e convince l’altro ad andarsene.

Riparto, so giusto pensando che finalmente fa caldo quando leggo un termometro che segna 7 gradi! Mi era successo anche ad Uyuni, con 8 gradi.

Finalmente l’albergo! Che mi fornisce anche di pizza in camera e parcheggio in una parte del cortile.

Domani, interamente dedicata a Cusco, speriamo non piova!