Neanche a dirlo, mi sveglio prima dell’alba. Mi giro un po’ nel letto aspettando che il sonno riprenda il sopravvento. Riemergo dalle nebbie che sono le 8 passate, quando scendo trovo i motociclisti veneti che hanno già portato fuori le moto e stanno finendo la colazione. Efficienti!

Mangio anch’io, li saluto, poi torno in camera. Sono in bagno a sistemarmi, quando in una frazione di secondo piombo nell’oscurità, sento un sibilo a pochi centimetri dalla mia testa e, un istante dopo, una piccola esplosione ai miei piedi! E’ precipitata la lampadina dal soffitto, molto alto! E’ andata in mille pezzi, non so se vuol dire qualcosa, credo nulla di buono, comunque.
I veneti partono, mentre io me la prendo con calma. Nel tempo che esco e – come mia abitudine quando non capisco dove andare – chiedo la direzione, incrocio nuovamente i veneti che avevano sbagliato strada! Magari indicata male dal navigatore oppure semplicemente per non voler chiedere, come ieri sera per l’albergo.
La strada si inerpica quasi subito su un altipiano spazzato da un forte vento. Anche oggi soffia dall’Algeria. Anche lì l’inverno deve essere duro!
Lungo la strada, mi tornano in mente alcuni immagini viste nei giorni scorsi.
Immagine numero uno. Un carroarmato e dei sacchi di sabbia giusto prima dell’inizio della medina di Tunisi. Fa effetto vedere questi segni di guerra in maniera così ravvicinata!
Immagine numero due. In realtà sono tante immagini, di vecchietti, bambini, giovani che mi salutano con le mani e con ampi sorrisi quando passo. Ma anche i saluti, le voci, i fischi, tutti di benvenuto. Tranne un ragazzino in un gruppetto che invece, per fare il duro, mi regala un fantastico 2×1: il gesto dell’ombrello con dito medio alzato!
Immagine numero tre. Un capannello piuttosto grande di persone che si affannano le une sulle altre, per prendere degli oggetti da una bancarella non troppo grande, sul marciapiede. Il motivo di tanta foga? Gli oggetti che si contendono e si strappano dalle mani gli uni con gli altri? Delle cerate, tipo K-Way.
Immagine numero quattro. Tante immagini, anche queste: tutte le bancarelle di frutta e verdure, piene di piramidi e composizioni geometriche di carote, cipolle, finocchi. Oltre alle macellerie che invece appendono all’esterno le teste degli animali che vendono: mucche, pecore, montoni. Tutte decorate con un po’ di erba incastrata nelle bocche e nelle narici.
Supero piccoli paesi con l’immancabile moschea dal minareto tozzo e quadrato, molto meno elegante di quelli turchi, sottili e tondi, a punta come tante matite.
Il tempo è brutto, attraverso piccole zone di pioggia, poi vira decisamente al brutto.



Mi fermo per indossare la cerata poco dopo aver superato il carico sparso sull’asfalto, ad occupare praticamente l’intera carreggiata, perso da un rimorchio che si è rovesciato su un fianco.
Arrivo a Redeyef, oppressa da un grande impianto industriale fatiscente. Da qui parte la pista di Rommel, ma l’ho già percorsa due volte, non ho voglia di fare sterrati e in più piove. La supero senza rimpianti, puntando alla prima oasi di montagna, Mides.
La strada che vi arriva è completamente sterrata e, siccome sta continuando a piovere, è un unico pantano fangoso.
Arrivo sotto il paesino abbandonato e tutto torna alla memoria, essendo già stato qui 6 anni fa. Mi aggancia Saber, un ragazzo di 30 anni simpatico che parla un discreto italiano.

“Mio fratello vive in Valle d’Aosta, è sposato con una italiana! Lavora le pietre, lì costruiscono molte case con le pietre, ha lavoro!”
“Sei mai andato a trovarlo?”
“No, è un casino … gli italiani non mi fanno il visto! Anche se dimostro di avere i soldi, poi vogliono altri documenti per il lavoro che non posso fare, visto che lavoro come guida per conto mio. E quindi non me lo danno. Ho un fratello anche in Francia, lavora a Tolosa.”
“Sei mai andato a trovarlo?”
“Sì, in Francia sì, sono andato due volte.”
Mi porta in giro nel minuscolo villaggio ormai in rovina dopo l’alluvione del 1969. Le case sono addossate le une alle altre, quasi tutti i tetti sono sfondati:

“Sono fatti con i tronchi delle palme e coperti di foglie”, mi spiega, “quando piove il legno si inzuppa e, in aggiunta alla sabbia che si deposita col vento, diventano molto pesanti. Se piove per tanti giorni, collassano”.
Camminiamo ancora, mi indica la montagna alle spalle del paese:
“Vedi lassù, quel forte? E’ l’ultima caserma tunisina, poi c’è l’Algeria. Siamo a mezzo km in linea d’aria.”
“Ci vai mai in Algeria?”
“No, sono i contrabbandieri che ci vanno.”
“Cosa contrabbandano?”
“Mah, tante cose, là le sigarette costano molto meno, anche il mangiare è economico e la benzina costa pochi centesimi di dinaro, mentre qui sta a un dinaro e mezzo!”
Adesso capisco perché, da quando sto percorrendo le strade che scendono a fianco dell’Algeria, non faccio altro che vedere ovunque venditori in nero di benzina. Si mettono a lato della strada con pile di taniche e imbuti per versarla. Quando la mettono nel serbatoio, poi, hanno l’accortezza di filtrarla attraverso un telo spesso molto lurido, da quanto riesco a vedere passandoci a fianco.
Arriviamo fin sul ciglio delle gole, splendide. Le pareti sono a gradini per via dell’erosione dell’acqua e il risultato è affascinante.


Saber ne va orgoglioso, però non resta sempre qui:
“D’estate vado a Djerba, c’è più lavoro! Poi l’inverno torno qui a Mides.”
Compro un paio di collanine berbere (la Porta del Deserto e la Croce del Sud) e un minerale che arricchirà la minuscola collezione di minerali e fossili che sto costruendo negli anni. Acquisto anche un chilo di datteri Deglet Nour, le Dita di Luce, dolci e buonissimi, ne vado matto. Ne mangio subito alcuni e visto che è ora di pranzo decido che sarà il mio pasto.

Prendiamo un tè, protetti da una tettoia di tronchi e foglie di palma, identico a quelli tradizionali che abbiamo appena visto. La pioggia continua a cadere lenta.
“In Italia ci sono delle organizzazioni che mettono in piedi delle società, poi vendono i permessi di lavoro stagionali.”
“Per riuscire ad avere il visto?”
“Sì esatto. Li vendono a 5/6mila euro, poi quando ne hanno venduti un po’, chiudono la società e ne aprono un’altra. C’è diversa gente che diventa ricca così”
“Anche in Francia lo fanno?”
“No, in Francia no, solo in Italia.”
Lo saluto perché inizia a farsi tardi, ci auguriamo a vicenda buona fortuna, ci servirà!

Anche la strada per Tamerza è distrutta in molti punti, ci sono solo terra e fango, per fortuna non si scivola troppo.
Arrivato nella piazzola di Tamerza da dove si entra nella città vecchia, la strada viene invasa da una moltitudine di ragazzi e ragazzini, tutti a offrirsi di guidarmi. Fuggo via, tanto sono già stato anche qui e proseguo verso Chebika.

Faccio a malapena un km che nello specchietto vedo un motorino. Non so perché, ma ho immediatamente la sensazione che sia qui per me. E infatti mi raggiunge e mi ferma.
Si chiama Farouk e insiste per portarmi a vedere le vere bellezze di Tamerza:
“Non te le fa conoscere nessuno, ti porto nelle gole di Tamerza fino alla cascata grande!”
“Ok, ma … prezzo??”
“Fai tu alla fine del giro, decidi in base a quello che ti avrò fatto vedere e a quello che ti avrò raccontato”
“No no amico, da mia esperienza se non mi dici il prezzo poi finiamo per discutere!”
“Tranquillo, decidiamo dopo, adesso andiamo”
Insisto ancora un paio di volte, ma niente, non si lascia convincere. Il prezzo lo deciderò dopo la visita.
Passiamo in mezzo al palmeto. Affascinante se si puntano gli occhi da un metro in sù, perchè per terra è un immondezzaio dove si vede di tutto. Sbuchiamo sul letto di un torrente.
“Qui durante l’alluvione di due settimane fa, l’acqua è arrivata a quattro metri!”
“Un momento, hai detto? Alluvione??”
“Sì, due settimane fa!”
“Ah ecco, ora si spiegano tutte quelle strade rotto intorno a Mides!”
Entriamo nelle gole, che ricordano alla lontana quelle di Petra, così sinuose e strette.



Dopo essere usciti dalla gola ed aver camminato ancora diversi minuti, arriviamo sotto la cascata. Alcune oche e qualche papera fanno il bagno nei pressi.

Torniamo alla moto, vuole portarmi alla cascata grande.
“Ok, dai, andiamo!”
Ci rimettiamo in sella, lui sullo scooter pieno di adesivi italiani, io in moto e facciamo qualche km verso la cascata. Però non segue i cartelli, prosegue lungo la strada che continua a salire, finché devia su una strada sterrata. Si ferma e mi fa affacciare: si vede perfettamente la cascata dall’alto. Incluse le decine di bancarelle ed i turisti che si bagnano nell’acqua.
“Vuoi che ti porto anche a Chebika?”
“No Farouk, non ho soldi!”
“Quanto hai?”
“50 dinari, guarda”, e gli mostro il portafogli effettivamente vuoto.
“Guarda meglio dai, ci metti 10 euro e ti porto anche a Chebika!”
Segue una discussione riguardo i soldi, lui che aspetta Natale e Pasqua per lavorare, io che gli dico, lo vedi che dovevamo definire subito il prezzo, che poi si finisce a discutere? Alla fine cedo, pensando che sto facendo una buona azione e gli dò i dieci euro.
“Però mi trovi anche una bella pietra!”
“Ok, quale ti piace? La mica? Il quarzo?”
“Il quarzo …”
“Dai andiamo, te la rimedio io!” e risale in sella.
Mentre scendo dalla strada sterrata per tornare sull’asfalto, penso che ho già percorso più sterrati di quanti non volessi farne.
La strada che scende da Tamerza a Chebika è spettacolare, molto simile alla pista di Rommel. In molti punti è franata, ridotta o addirittura scomparsa sotto al fango.
Arriviamo a Chebika e mi fa arrampicare sulla montagna alle spalle dell’antico abitato, distrutto anche questo dalla stessa alluvione che distrusse Tamerza e Mides.


Mi fa notare una roccia piena di cozze fossili, poi arriviamo alle spalle della piccola cascata che si getta in un minuscolo specchio d’acqua verde-azzurro sul quale si affaccia una bellissima palma con tre fusti.


Mentre torniamo alla moto si ferma da un paio di venditori di pietre con cui inizia a parlare in arabo. Parla un po’ con il primo, apre un paio di pietre, poi se ne va.
“Non vi siete messi d’accordo?”, chiedo malizioso.
“No, non mi piacevano”, risponde furbamente.
Con il secondo abbiamo successo e mi dà un bel quarzo candido.

Usciamo insieme dal paese, lo accompagno fino ad un’abitazione dove rimedia un litro di benzina in una bottiglia di plastica. Subito vengo accerchiato da tre splendide bambine sorridenti che si inseguono e giocano. Gli dò delle liquirizie che sembrano apprezzare.

“Bene Fabio, fai sapere che a Tamerza c’è Farouk con il KTM blu, il passaparola è la cosa migliore!”
“Ok Farouk contaci e grazie di tutto!”

E’ quasi il tramonto e mancano ancora 70 km a Tozeur. La strada non accenna a migliorare, rimane una pista fangosa. Poi realizzo che è stata letteralmente spazzata via dall’alluvione. Mi aspettano 70 km di fango. Meno male che non volevo fare sterrati!!
I primi km sono comunque veloci, poi la pista peggiora. La pioggia che è caduta per buona parte della giornata e sicuramente anche nei giorni scorsi, ha trasfomato la pista in una distesa di fango scivolosissimo. Mi tornano alla mente le parole di Farouk mentre faticavamo a stare in piedi, quando scendevamo verso il torrente:
“E’ il fosfato che rende la terra così scivolosa, appena si bagna diventa peggio del sapone”

E infatti in alcuni momenti, pur andando a 10 km orari, la moto slitta sotto di me, trascinata via dalla semplice forza di gravità. Rischio di cadere una, due, tre volte, poi con un’ultima zampata riesco ad evitare il peggio. Tra l’altro, sono partito con le gomme molto consumate!
Dopo alcuni km così, vedo due auto ferme. Anche loro hanno problemi di trazione.

“Quanti km ci sono così??”, chiedo al ragazzo in piedi a fianco dell’auto.
“Trenta!”, risponde con sicurezza.
“TRENTA?!?!?”, esclamo pensando che trenta km in queste condizioni non sono sicuro di riuscire a farli.
Una ragazza dentro l’auto segue lo scambio e capisce, dalla mia espressione, che il ragazzo non si è spiegato bene. Rivolge una battuta al ragazzo che si mette a ridere e si corregge:
“Trenta fino a Tozeur, ma così sono solo tre km”
“Sicuro??”
“Sì, solo tre km”
E comunque sono tre km lunghissimi perchè quasi impraticabili. Comunque non ho alternative e riparto, slittando da tutte le parti mentre maledico il peso della moto, il baricentro alto, tutto il peso che ho caricato nel bauletto posteriore e poi, ovviamente, il meteo vigliacco e malevolo.
Finalmente lo strazio finisce e torno sulla strada principale per Tozeur.
Arrivo fino all’albergo.

Sorrido perchè, di tre volte che sono venuto a Tozeur, è la terza volta che finisco nello stesso albergo e ogni volta penso “stavolta voglio cambiare!” e finisco regolarmente per scegliere lo stesso albergo, di cui nel frattempo dimentico il nome.
Sistemo la moto nel solito corridoio dell’albergo, ceno velocemente nel ristorante a fianco dell’albergo, poi crollo esausto a letto, mi addormento di schianto! Speriamo che domani il tempo migliori!
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