Relax sulla Laguna del Paradiso

Oggi vorremmo andare alle lagune qui vicino, la Azul e la Paraiso. Non sappiamo se andarci con la Pollita oppure con una delle auto che fanno quel tragitto più volte al giorno. Volendoci andare con la Pollita, l’idea è di seguire una di queste auto, per vedere quale è la pista, che non conosciamo.

Facciamo appena in tempo ad uscire dall’albergo, sì e no 10 metri e incrociamo un furgonato 4×4 che ci chiede se vogliamo andare alle lagune. Bene, il destino sceglie per noi, mi dico mentre saliamo a bordo!

Carichiamo due signore brasiliane, poi Barbara, una ragazza di Bologna che abbiamo conosciuto ieri sera. Anche lei ha fatto La Scelta, trasferendosi qui alcuni mesi fa, abbandonando il lavoro che aveva in Italia.

La pista è quella per Jijoca, infatti le lagune sono vicino al paesino.

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Barbara ci dice che la laguna Azul è molto bassa per via delle scarse piogge degli ultimi due anni, meglio andare a quella del Paraiso.
Ci facciamo portare là, in una delle posade che si affacciano sulle acque. La laguna è azzurra e sulla sabbia candida il colore risalta ancora di più. Ecco i colori tropicali che cercavo sulla costa colombiana, ma che non sono riuscito a trovare!

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La giornata passa tra il lettino, al riparo del grande ombrellone di foglie di palma e l’amaca sistemata a pelo dell’acqua, tesa tra due pali infilati ad un paio di metri dalla riva. Durante una passeggiata riesco a rimediare un pizzico di un’ape, camminandoci sopra. Vediamo anche un sottile serpente, chissà se è velenoso!

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Alle 16 in punto torna a prenderci, come promesso, la persona di stamattina col fuoristrada. Viene a prelevarci direttamente sull’amaca in acqua, che peccato dover tornare!

A Jerì andiamo a salutare Salvatore per accordarci per la cena, poi torniamo sulla duna per salutare il sole che si tuffa dietro l’oceano. Oggi c’è molta più gente, meno magico di ieri.

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Mentre torniamo, ci fermiamo a lungo a fianco di una “roda” di capoeira, con la musica e le persone che fanno la loro danza – combattimento due alla volta. Molto suggestivo, seguire le acrobazie al ritmo ipnotico della musica nella luce del crepuscolo, a pochi passi dal mare che nel frattempo sta risalendo a grandi ondate per la marea.

Anche stasera ceniamo con Salvatore che ci racconta alcune delle sue mille vite in giro per il mondo, poi finiamo la serata sulla spiaggia, sotto una Via Lattea molto brillante.

Domani forse facciamo un’altra gita in una zona dove ci sono i cavallucci marini, lontana memoria di quand’ero bambino e si potevano ancora vedere nel mare della Croazia, all’epoca Jugoslavia.

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L’esperienza insegna?

Intendo dire: si impara dai propri errori? Dopo essersi scottati una volta, ci si scotta ancora?

Se lo si chiede a qualcuno, quasi certamente risponderà, “certo che imparo dai miei errori, non ci casco più!”

La risposta reale però è, “dipende”. Dipende dall’errore, dal tipo di esperienza coinvolta, da quanto ci si è scottati in precedenza e quando ma, soprattutto, dipende dal carattere e dall’attitudine di ciascuno di noi. Banalmente, se si è ottimisti o pessimisti, entusiasti o prudenti.

Fatto sta che nel giro di 24 ore mi sono ritrovato nuovamente con le ruote nella sabbia.

Partiamo abbastanza presto da Parnaiba sotto un cielo azzurro brillante. La temperatura è gradevole, abbiamo voglia di arrivare sul mare, a Jericoacoara per rilassarci alcuni giorni.

Prendiamo la strada costiera verso Luis Correia, fino a Coqueira. Ci affacciamo sulla spiaggia, ampissima sia come lunghezza, praticamente fino all’orizzonte, che come larghezza.
Stanno facendo un incontro di capoeira a pochi metri dall’acqua. Quattro musicisti e gli alunni di una scuola che si battono a turno, due massimo tre alla volta.

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Proseguiamo lungo la strada che si infila tra le dune, che si allungano sull’asfalto con lingue di sabbia come a volerne prendere possesso, poi puntiamo decisi nell’entroterra. Il caldo aumenta.

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Verso Chaval inizia una zona di rocce tonde, levigate. Ricordano le Meteore greche, ma in miniatura.

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Ci fermiamo per bere qualcosa, ma il profumo che arriva dalla griglia dei churrasco mi cattura, ordino una “spada” con tre pezzi di carne. Il mitico Hermes mi fa gustare il mio primo churrasco in terra brasiliana.

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Uno degli avventori ci accompagna nel centro della cittadina alla roccia che ospita un piccolo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes.

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Finalmente arriviamo a Jijoca de Jericoacoara, dove ci fermano alcuni ragazzi che lavorano come guide. Ci dicono che sulla costa, a Jericoacoara, si arriva o in jeep lasciando la moto in uno dei parcheggi, oppure con la Pollita, seguendo uno di loro.

Provo a chiedere com’è la pista:

“Solo 20 km, tutti di sabbia battuta, non c’è problema!”

Mi lascio convincere dalla breve lunghezza della pista, spero che almeno su questo non mentano! E così, in 24 ore nette, dopo tutti i buoni propositi di non cedere più a false promesse e soprattutto a dedicarmi esclusivamente al relax, eccomi di nuovo sulla sabbia!

L’inizio è sui sanpietrini di Jijoca, poi usciamo nella campagna, su una sabbia rossa effettivamente compatta, facile. Poi finisce e la guida, sulla cui moto è salita Caterina, si ferma per sgonfiarmi le gomme. Brutto segno, mi dico.

E infatti inizia la pista vera, di sabbia bianca.

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Corriamo, si fa per dire, in una pianura vasta, circondata da dune candide. La sabbia non è molto compatta, ma con le ruote sgonfie vado meglio di ieri.
Poi iniziano le parti più profonde, ma vado avanti spinto soprattutto dall’idea che mancano soli 10 km.

Superiamo un punto impegnativo dove anche la guida si insabbia parzialmente:

“C’è ancora un punto brutto davanti, poi tutto tranquillo fino a Jericoacoara”

Proseguiamo nella sabbia, poi lo vedo fermo a lato della pista, mi fermo anch’io. Sono così concentrato nella guida da non essermi accorto di essere ai piedi di una grande duna che taglia la pista.

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“Se vuoi te la porto io sopra, non ci sono problemi!”

Lì per lì il mio orgoglio di maschio motociclista con 20 anni di esperienza si ribella, poi mi dico che se mi dice così deve esserci un motivo, lui ha senz’altro più capacità ed esperienza di me sulla sabbia e sono già abbastanza stanco.

“Ok, tieni, mi raccomando!”, gli dico mentre gli passo il manubrio della Pollita.

Inizio a salire a piedi sulla duna e scopro il motivo. Non si tratta solo di salire sulla duna, ma anche di proseguire su un lungo “campo” di soffice sabbia fino a raggiungere nuovamente, un centinaio di metri dopo, la pista.
Mi sarei insabbiato certamente, anche perché da sotto non si vedeva quanto era estesa la duna.

La guida ingrana la prima e scondizolando vistosamente si inerpica sulla duna e prosegue fino a raggiungere nuovamente la pista.

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“Vado a riprendere la mia e proseguiamo, ma ormai è tranquilla!”

Dopo un paio di minuti lo vediamo tornare spingendo la sua moto:

“Ho le gomme troppo gonfie!”, ci spiega. Non capisco perché non le sgonfia come ha fatto con me.

La pista non è tranquilla per niente, la sabbia è abbastanza profonda, ma ormai mancano pochissimi km e arriviamo rapidamente. Mi chiedo come farò quando dovremo tornare, ma non voglio pensarci adesso.

Ci infiliamo in una posada che conosce la guida, molliamo tutto e corriamo a vedere il tramonto dalla duna altissima che si affaccia sul mare, a fianco del paesino. Splendido!

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Trascorriamo una serata molto piacevole con Salvatore, il cugino di una nostra amica, che si è trasferito qui alcuni anni fa. Parliamo della vita a Jerì, in Brasile e della vita in generale.

Crolliamo a letto presto, domani ci aspetta un’intensa giornata di riposo 🙂

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Sulla relatività

Lungi da me disquisire sulla teoria sviluppata da Einstein all’inizio del ‘900. Faccio piuttosto riferimento a come giudizi, opinioni e impressioni siano tutti relativi al punto di vista, alle esperienze ed alle conoscenze di chi li esprime.

Tutto è relativo. L’ho sentito dire e a mia volta l’ho detto un’infinità di volte, ma spesso il concetto e le sue implicazioni continuano a sfuggirmi.

Come ad esempio con la pista di oggi.

Arrivando a Barreirinhas avevo notato che la terra aveva lasciato il posto alla sabbia alcune decine di km prima; avevo anche visto alcune piste di sabbia profonda, con i classici morbidi solchi che si allontanano serpeggiando nell’entroterra. Infine sapevo che la pista “diretta” che porta a Paulino Neves è di sabbia profonda.

Tutto questo è da tenere in considerazione quando qualcuno del posto dice “c’è un’altra pista per Paulino Neves che è facile! Più lunga, ma non c’è sabbia”

Ma questo non l’avevo pensato e prima di partire per questa pista, ancora penso che tutto sia come mi hanno assicurato almeno dieci volte, tre persone diverse, ossia “tutta pietra, una pista dura!”

Questo è quello che so, oltre alla lunghezza, 90 km. Più lunga, ma se è tutta dura, che problema c’è?

“Non sono 90 km, ma 100!”, precisa la nuova guida mandata da Michael, visto che lui ha un altro impegno. Ottimo!

Torniamo indietro per qualche km sulla strada fatta arrivando da Sao Luis, poi deviamo sulla sinistra. Un cartello indica un parco nazionale o qualcosa del genere, non faccio in tempo a leggere, qualcosa con “rosso”.
E effettivamente la terra è rossa, come quella dell’Amazzonia. Peccato che lasci il posto quasi subito alla sabbia!

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Inizio a “remare” nella sabbia, che cattura la ruota anteriore e la fa andare dove vuole lei, a seconda di come è disegnato il solco più profondo. E tutta la moto dietro che, se non è in asse con la direzione presa dalla ruota anteriore, si inclina e sembra volermi sbalzare via.

Dopo le prime sbandate forti in cui dò grandi zampate a terra per restare in piedi, la guida acconsente a portare Caterina, per alleggerire il carico.

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Continuo però ad avere grandi difficoltà, c’è ancora troppo peso che grava sulla ruota anteriore. Mi fermo nuovamente e lego la borsa da serbatoio sulla sella lasciata libera da Caterina.

La situazione migliora leggermente, ma la sabbia è troppa e continuo a fare una fatica enorme per restare in piedi. La pista attanaglia la ruota anteriore e la sposta, la trattiene, la afferra. E io dietro, a cercare di restare dritto, a non dargliela vinta, a voler comandare.

Dopo 35 km ci fermiamo in un paesino. Abbiamo impiegato 2 ore, ottima media. Di questo passo gli altri 75 km li faremo in più di 4 ore.

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La guida continua a dirmi che tra poco la pista migliorerà:

“Diventa più dura, non preoccuparti! Anzi, dimmi: sul duro a quanto riesci ad andare?”

Quasi mi ci fa credere e gli dico che se il fondo è duro, vado veloce senza problemi, anche a 60 o 70, dipende!

La guida sembra sollevata, ci crede anche lui: “bene, vedrai che migliora, perché fino a qui passano molte macchine e rovinano la pista, dopo invece ci passa molta meno gente e la pista è migliore”.

Bene, anche se in realtà mi dà due notizie: una sulla pista che migliora, buona notizia. L’altra sul numero inferiore di auto che, aggiungo io, potrebbero darci una mano in caso di difficoltà o problemi! Cattiva notizia.

Ripartiamo ed effettivamente la pista migliora. Delle pietre si affacciano dalla sabbia a dare una consistenza maggiore al fondo. Attraversiamo dei ruscelli su piccoli ponti di legno. Devo fare attenzione ai chiodi che sporgono dalle assi, ci manca solo che buchi qui!

Poi, inevitabilmente, la pista peggiora nuovamente. Sempre più sabbia, fino a invertire la situazione: da pista dura con qualche parentesi di sabbia, a pista di sabbia con qualche parentesi di pietra.

In una delle soste la guida mi propone uno scambio di moto. A momenti si cappotta anche lui (“è molto pesante con tutti questi bagagli!” … eh già, non me n’ero accorto …) e io non riesco a guidare la sua moto, completamente storta per vari incidenti, la leva del freno rotta (!) e la frizione con una corsa utile di uno o due centimetri.
Torniamo ognuno alla sua moto.

Impreco e maledico Michael e l’altro tipo dell’agenzia che mi hanno mandato a cuor leggero su questa pista lunghissima e impestata di sabbia. Tutto è relativo per me, ma anche per loro, diamine! Devono pensare che una persona che viaggia con un 125 carico con un passeggero e qualche decina di kg di bagaglio, potrebbe avere delle difficoltà.

La situazione peggiora progressivamente ed inizio a pregare per un’auto che possa portare anche i bagagli. Solo che la pista è molto meno trafficata, finora non abbiamo incrociato che tre o quattro moto, nessuna auto.

Passeranno sì e no cinque minuti da quando prego per incontrare un’auto, che guardo nello specchietto e vedo il muso di una macchina in lontananza, alle mie spalle!
Un nuovo miracolo!!!

Mi piazzo al centro della pista, devono fermarsi! E’ una coppia di giovani brasiliani.

“Anche noi dobbiamo andare a Paulino Neves e stiamo imprecando su questa pista maledetta, ci avevano detto che era tutta dura, senza problemi! Invece non faccio altro che toccare sotto e rischiare di insabbiarmi. Ho già spaccato la marmitta!

Gli mollo tutto tranne la tanica che tengo per non intossicarli. La guida mi chiede qualche litro. Anche Caterina sale in auto, molto più comodo e sicuro che non in moto con la guida.

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“Bè, ora che Caterina e bagagli sono nell’auto, io torno indietro!”, esclama la guida provando a svincolarsi.

“Eh no, ti ho pagato, né noi né loro conosciamo la pista, ci accompagni fino in fondo!”

La situazione migliora, ma non radicalmente, continuo ad avere paura della sabbia. Non mi piace, il mio istinto di conservazione non mi fa guidare come dovrei, ossia col peso indietro, stringendo la moto tra le gambe e dando gas! Va anche detto che non è facile farlo con soli 11 cavalli.

Comunque sono più tranquillo e vado meglio e ringrazio nuovamente Dio quando vedo che la pista peggiora e peggiora. Arriva una salita e l’auto si insabbia. Caterina e la moglie del guidatore scendono, io e la guida proviamo a spingere, nulla.
Cambiamo approccio, facendo scendere l’auto, che prende la rincorsa, ma si insabbia nuovamente.
La guida propone di guidare l’auto. Nulla, insabbiato! Ci riprova, nuova ricorsa ancora più lunga: botte violente, sterzate e controsterzate, ma di nuovo si insabbia a metà salita.

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Terzo tentativo, prova un altro lato della salita di sabbia e … riesce!

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Joao, il ragazzo dell’auto, torna al volante, e la guida alla sua moto. Joao e Tatiana sono arrabbiati quanto noi per la situazione, e altrettanto felici perchè non ce l’avrebbero fatta senza di noi. Lo stesso vale per noi. L’unione fa la forza!!

Nuovi paesini dispersi nelle sabbie del Maranhao, collegati dalla pista di sabbia. Nuova lunga salita di sabbia profonda. Mi insabbio anch’io. Scendo e spingo la moto che, senza niente e nessuno a bordo, fatica comunque ad andare su. Terribile!

Anche l’auto ha grandi difficoltà, ma dopo qualche tentativo fatto dalla guida, riusciamo.

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Questa è una delle situazioni in cui i km non passano. Ogni tanto l’occhio va veloce al contakm, ma vede sempre la stessa cifra o poco diversa. Inizi a pensare che si sia rotto il tachimetro, ma no, funziona regolarmente. Sono i km che durano molto di più e l’unico appiglio è la forza di volontà.

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Continuo a ripetermi di non mollare, che prima o poi finirà. I 70 km diventano 60. Dopo un tempo infinito 50, poi 40, 30, 20. Non posso mai rilassarmi, perchè quando meno me l’aspetto, la moto affonda nella sabbia, la ruota anteriore si piega terribilmente e la moto vuole sbalzarmi fuori, cadendo a destra o sinistra.

Nuovi paesini prigionieri della sabbia, i km nonostante tutto passano e finalmente il momento che aspettavo da ore: sento l’auto che suona il clacson con Joao che tira fuori il braccio in segno di vittoria. L’asfalto!!!!!

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Con Joao e Tatiana i salutiamo calorosamente dandoci appuntamento a Jericoacoara. L guida invece si lancia in proclami battaglieri:

“Torno dalla pista breve di sabbia profonda (e indica un’altezza fino al ginocchio)”

“Ma perchè, visto che è tanto peggiore?”, chiede Caterina.

“Perchè mi piace l’avventura …”

Joao e Tatiana se ne vanno, io lego lentamente i bagagli, ancora provato dalla pista appena finita. La guida rimane lì a fissare il vuoto.

Poi evidentemente capisce che impiego ancora diversi minuti, si stufa e imbocca la pista “facile” per tornare a Barrerinhas.

Puntiamo a Parnaiba, a 120 km da qui. Ci fermiamo per bere e mangiare un boccone, poi riprendiamo la strada, di lunghi saliscendi in mezzo ad un bosco di basse piante che arrivano all’orizzonte. Provo a immaginare come dovevano essere quelle lunghe salite e discese quando c’era ancora la pista di sabbia.

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Superiamo il Rio Parnaiba, molto grande ma dopo aver visto il Rio delle Amazzoni non mi impressiona. Tutto è relativo, dicevamo.

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La città di Parnaiba si presenta deserta. Probabilmente è per via della festa di indipendenza. Troviamo una bella posada nei pressi dell’antico porto sul fiume.

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Sono a pezzi e anche Caterina è molto provata dalla giornata, ci limitiamo ad una cena minima ed una breve passeggiata.

E domani, diretti a Jericoacoara! Entrambi abbiamo perso ogni velleità di pista sulla battigia del mare, desideriamo solo raggiungere una sdraio ed un ombrellone il prima possibile!!

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Le Piccole Lenzuola sul fiume

La gita di oggi si svolgerà interamente sul fiume Preguiças , passando dalle Piccole Lençois per arrivare a Caburé, sul mare.

Subito dopo colazione andiamo alla precedente pensione, visto che abbiamo già pagato le escursioni, ma non abbiamo avvisato del cambio di alloggio. Anche oggi troviamo un taxi ad attenderci, un bel trattamento!

Ci porta fino al molo di Barrerinhas dove troviamo altre persone a formare un gruppo di una ventina di persone. Saliamo su un bel motoscafo spinto da un fuoribordo da 200 CV e iniziamo la gita sul fiume.
A differenza del Rio delle Amazzoni, le sponde di questo sono del tutto disabitate, solo distese di mangrovie affacciate sull’acqua e, dietro, palme e altri alberi molto fitti.

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Ci infiliamo in un canale dove si affacciano vecchie case ormai semi distrutte dalle acque e dall’abbandono. Il ragazzo che guida il motoscafo si ferma per spiegarci qualcosa, ma sono troppo lontano e non ho voglia di impegnarmi a capirlo, mi limito a guardarmi intorno riempiendomi gli occhi di questa natura incontaminata.

Dopo una ventina di minuti di navigazione vediamo estendersi sul fiume alte dune. Sono le Piccole Lençois! A differenza delle altre che abbiamo esplorato ieri, sono meno estese, da qui il nome, è di colore ocra anzichè candide.

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La barca approda direttamente sulla sabbia, abbiamo 40 minuti di tempo libero. Ci spariamo subito un’agua de coco, poi iniziamo ad arrampicarci sulle dune.
Presto ci troviamo completamente soli, gli altri restano nel ristorante oppure nei pressi del fiume. Anche queste sono magiche, irreali. Iniziano improvvisamente ed altrettanto improvvisamente terminano in una distesa di verde e, da questo lato, sul fiume. Come nelle Grandi Lençois, anche queste accolgono piccole lagune tra una duna e l’altra.
Giochiamo a rotolarci, scivolare, camminare sulla sabbia fine come farina; ci lasciamo catturare dal silenzio, rotto solo dal vento che ci avvolge, incessantemente e che ci ricopre di sabbia.

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Il tempo vola e torniamo giusto in tempo per giocare con alcuni macachi che, a fianco del ristorante, vengono a mangiare dalle nostre mani. E’ sempre affascinante e per certi versi inquietante, vedere quanto ci somigliano! O quanto noi somigliamo a loro, dipende dai punti di vista.

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Ripartiamo aggirando la duna che si estende ormai per molti metri sul fiume, prossima fermata un piccolo villaggio con un faro dal quale è possibile osservare dall’alto le Piccole Lençois e il fiume che si getta in mare.

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Ultima sosta, stavolta a Caburé, dove vado a gettarmi nelle acque molto mosse dell’oceano.

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Pranziamo con un bel piatto di gamberi e riso, poi ci godiamo il tepore, il vento e la pace dondolandoci sulle amache.

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Il ritorno è veloce, senza soste, finché, dopo una ventina di minuti di navigazione, il motore del motoscafo muore improvvisamente. Silenzio. Mi giro e vedo il ragazzo al volante già con il cellulare in mano. E subito chiede chi di noi prende il segnale. E’ chiaro che c’è un problema! Va sul retro della barca a trafficare e riesce ad accendere il motore. Penso ad un serbatoio di riserva, invece forse si tratta solo di una piccola riserva, perché non facciamo altro che arrivare sull’altra sponda del fiume dove si affaccia la casa di un pescatore.
Irrompiamo così nella tranquilla vita di questa famiglia, piena di galline e galli, anatre e altri animali da cortile, inclusi una splendida coppia di inseparabili di cui sia Caterina che io ci innamoriamo all’istante, piante da frutto, qualche campo coltivato e probabilmente anche una barca per pescare, visto che ci sono diverse reti da pesca.

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Restiamo sulla riva per un po’ di tempo, chi a chiacchierare con la famiglia, chi a guardarsi intorno, chi a fare conoscenza approfittando di questo imprevisto, quando finalmente arriva da Barrerinhas la barca di soccorso.
Alcuni salgono con loro, il resto rimane sul motoscafo adesso rifornito di benzina.

Torniamo in città, facciamo una breve passeggiata, poi finiamo la giornata e la serata nella pensione.

Telefoniamo a Michael che domani ci accompagnerà lungo una pista fino a Paulino Neves. Dovrebbe essere una alternativa “pietrosa” rispetto alla pista “diretta”, piena di sabbia profonda.
Speriamo bene, perchè in due carichi su una moto da 11 CV sarebbe piuttosto faticoso se non impossibile superare dei banchi di sabbia.

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Lenzuola brasiliane

La sveglia arriva con delle martellate tipiche del muratore che sta spaccando un muro. Esattamente dietro la nostra testa, alle 7:30.

Caterina si affaccia dal balconcino borbottando qualcosa che fa smettere all’istante il tipo. Continuiamo a pensare che ci sia una macumba, una cattiva sorte che ci perseguiti: le nostre malattie, l’aereo e la nave perse più tutta una serie di fastidi che stiamo avendo.

La colazione è ricca, il mio ideale: torta di ananas, succhi di frutta tropicale e frutta fresca (ananas, anguria, melone e papaya). E un po’ di caffè amaro.

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Alle 9:30 in punto si presenta un incrocio tra un furgone aperto e un fuoristrada: in pratica l’auto è una potente jeep 4×4 che dietro ha montato tre serie di sedili sopraelevati, coperti da un tettuccio.
Con questo andremo a vedere alcune lagune nel parco delle Lençois, le lenzuola per via delle dune candide che si stendono fino al mare.

Andiamo fino al porticciolo di Barreirinhas, dove una piccola chiatta fa la spola tra una sponda e l’altra portando persone, auto, moto e furgoni. E’ senza motore, viene spinta da una piccola barca in legno, che la spinge quasi come un cane pastore farebbe con una pecora indisciplinata.

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Al di là del fiume, il paesaggio cambia immediatamente: la vegetazione più desertica e sabbia ovunque, profonda. Il villaggio è costruito sulla sabbia e le strade ricordano i canali di Venezia, solo che qui si naviga, invece che sull’acqua, sulla sabbia.
Sorrido pensando a tutti quei viaggiatori e turisti “avventurosi” che imprecano quando una strada in qualche paese remoto viene asfaltata, maledicendo il progresso che rende accessibili tutti i posti unici, rovinandoli. Forse dovrebbero passare qualche mese in un paesino del genere, dove anche andare dall’altro capo dell’abitato è complicato e la sabbia invade tutto.

Usciti dal paesino, ci infiliamo in un sentiero largo appena quanto l’auto, iniziando una serie di scosse, salti e scuotimenti che nulla hanno da invidiare ai luna park più riusciti.

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Dopo una mezz’ora di salti da canguro, arriviamo alla base di un’alta duna candida. Alle spalle vediamo stendersi la prima laguna azzurra. Meravigliosa! Le dune candide si inseguono fino all’orizzonte e spesso, nella cavità tra una duna e la successiva, si trova una laguna, più o meno grande a seconda delle dune che la racchiudono.
Il luogo è magico, si passa in pochi metri da una bassa vegetazione di tipo mediterraneo ad una distesa di dune che proseguono per chilometri, fino al mare.

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(con sabbia sollevata dal forte vento)

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La guida ci porta a vedere quattro o cinque lagune, in due faccio anche il bagno, non resisto ad immergermi nelle acque azzurre circondate dalla sabbia candida come neve!

Dopo qualche ora facciamo la strada o meglio, la pista inversa: fino al traghetto, poi dall’altra parte del fiume.

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Torniamo in albergo. Anche se stamattina abbiamo trovato una posada alternativa, chiediamo di poter stare in piscina fino alle 16, quando verranno a prenderci per il volo aereo sopra le dune delle Lençois.

Riposiamo sulle amache all’ombra di alti alberi, cullati dallo sciabordio delle piccole onde del fiume. Una pace meravigliosa!

Alle 16 arriva il taxi, inviato dall’agenzia, a prenderci per portarci all’aeroporto. Dentro ci sono già mamma e figlia di Manaus.

L’aereo che ci aspetta è abbastanza piccolo, forse non come quello che presi a Nasca. Il decollo è veloce e in pochi minuti fiancheggiamo le piccole Lençois, dette così perché sono meno estese delle altre ed il colore non è candido, ma sul giallo.

Arriviamo fino al mare sorvolando Caburé e Atins, ammirando dall’alto il fiume Preguisa che sembra non volersi gettare nell’oceano: disegna delle ampie volute che si avvicinano fino a pochi metri dall’oceano, ma senza rompere del tutto la lingua di sabbia che li separa.

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Infine si arrende all’incontro inevitabile, opponendo un’ultima resistenza di alte onde per ritardare il più possibile l’abbraccio tra l’acqua dolce che arriva dalle immense foreste e quella salata dell’immenso mare.

Dal mare, dove finiscono le Lençois, torniamo verso l’interno, sorvolando la lunga serie di dune che disegnano curve e spigoli di sabbia. Molte accolgono delle lagune tra una duna e l’altra. A volte azzurra, quando sul fondo non ci sono alghe; molto più spesso verde chiaro e più scuro quando le piante acquatiche hanno iniziato a svilupparsi.

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Il piccolo aereo torna fino a Barreirinhas. In men che non si dica inizia l’atterraggio. E’ molto veloce, sembra quasi lo abbia deciso all’ultimo secondo, senza esserne convinto.
Arriviamo a terra molto velocemente e storti, non paralleli al terreno. Prima botta, con forte sobbalzo di tutto l’aereo e noi dentro, sulla ruota destra, poi sinistra. Siamo storti e molto veloci, non riusciamo a frenare. In men che non si dica, il pilota decide di decollare nuovamente.
Eccoci di nuovo per aria, con me che impreco sia per questa manovra pericolosa del pilota, sia per lo stomaco che nel frattempo mi è arrivato in gola.

Al secondo tentativo, più ragionato e preparato del primo, tutto fila liscio.

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Torniamo in albergo, cambiamo di posada, ci sistemiamo ed andiamo a cena. E’ presto, ma praticamente non abbiamo pranzato. Ennesimo ristorante di un francese.

Domani gita fino a Caburè, non so bene cosa andremo a visitare, chissà!

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Pollita a pieno carico

Oggi vogliamo entrare nel parco del Lençois Maranhenses. Almeno l’idea è quella, perché c’è ancora la grande incognita della moto.

E’ la prima volta che ci viaggio in due e a pieno carico. Non voglio ancora mollare la tanica, perché non so quanto consumerà viaggiando in due e forse passeremo in zone isolate.

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Prima di partire, dopo aver montato i bagagli, iniziamo a parlare con un gruppo di italiani che dorme nel nostro stesso albergo. Non credono che ho fatto tutto il viaggio che ho fatto … “con quel motorino!”
Uno in particolare definisce “motorino” la Pollita per ben due volte. Lei è superiore e lascia correre, ma io sono già pronto a rispondere per le rime se lo ripete una terza volta. Motorino! Mi ha fatto viaggiare nei più bei posti del Sud America: portare rispetto per questo magnifico mezzo, grazie!

Magnifico, ma pur sempre con 11 cavalli. Che comunque sembrano sufficienti alle prime battute per uscire da Sao Luis e anche sulla statale non va per niente male. Ottimo lavoro il meccanico di ieri!

La statale che porta alla deviazione per Lençois Maranhenses è intasata di camion: la stanno raddoppiando e i lavori fervono. Fortunatamente, la piccola strada che porta al parco è molto meno trafficata e con paesaggi decisamente più interessanti.

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Superiamo un paio di fiumi e altre che sembrano piccole oasi.

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Il caldo aumenta e, allo stesso tempo, la vegetazione si fa più rada, desertica. La terra su cui cresce la vegetazione, non è più terra, ma sabbia candida.

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Questo per molti km proseguendo verso Barreirinhas; poi, senza motivo apparente, da una curva all’altra tornano alberi a profusione.

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Caterina non si sente bene, per cui ci fermiamo diverse volte e anche a me fa piacere, per via del caldo, ma i tempi si allungano.

Arriviamo finalmente a Barreirinhas e veniamo subito agganciati da Michael, una guida locale che prova a venderci una pousada, poi qualche gita sul fiume qui vicino. Alla fine scegliamo una gita verso le lagune, il volo aereo sulle dune e una gita in barca fino ad Atins. Tutto questo in due giorni.

Ceniamo in un ristorante in riva al mare, cercando di pianificare i prossimi giorni, accompagnati da una bella orchestrina di forrò.

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Domani, volo aereo! Stavolta non farò come a Nazca, non mangerò nulla prima di partire!

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A Sao Luis, preparando la vacanza

Il “non incontro” di ieri è stato leggendario: una perfetta combinazione di incertezza da parte mia dovuta alla febbre di ieri e di anticipo nell’atterraggio dell’aereo di Caterina, con consegna immediata del bagaglio e taxi pronto all’uscita.
Risultato: io ero agli arrivi in aeroporto mentre Caterina era in albergo a chiedersi dove fossi.

Perfettamente in linea col nostro stile!

Oggi dobbiamo sbrigare due faccende: il tagliando alla moto dove soprattutto voglio far controllare la carburazione e spedire tutta la roba invernale che porto dietro dall’inizio del viaggio e che ho usato fino in Ecuador, per far spazio ai bagagli di Caterina.

Mi sveglio presto e vado alla Honda, proprio di fronte all’aeroporto. Parlo col meccanico che ieri pomeriggio, al mio arrivo da Santa Ines, mi aveva assicurato poteva fare il tagliando in mattinata. Arrivo che sono le 8.

“Mi spiace, sono arrivate due moto alle 7:30, tu sei il terzo. Riesco a dartela per stasera, anzi no, per domani”

Me ne vado all’istante molto innervosito, quando passo di fronte a un altro meccanico piuttosto grande. In due ore me la fanno, con tanto di piastra di legno montata per fissare la sacca a cilindro. Ottimo!

Torno in albergo, sistemo i bagagli con Caterina, le valigie immancabilmente si devono aprire nella posizione massima. Sono davvero curioso di vedere se e come riusciremo a viaggiare in due sulla Pollita! Studiamo anche la strada e le piste da fare nei prossimi giorni, per percorrere la costa da qui fino a Recife. Almeno l’idea è quella.

Verso l’ora di pranzo portiamo alla posta lo zaino di Caterina riempito dei vestiti invernali, destinazione Rio de Janeiro! Otto chili di bagaglio in meno.

Torno a prendere la moto e mi fermo qualche minuto a parlare del viaggio al meccanico, incuriosito dalla targa cilena.

“E poi, quando arrivo a Recife, la vendo …”, dico concludendo la sintesi del viaggio.

“Ah e a quanto la vuoi vendere?”, si informa il meccanico.

“Pensavo 4000”, rispondo pensando all’idea – ribassandola di 1000 reais – di Tom a Manaus.

Scoppia in risata irrefrenabile, manco gli avessi raccontato la barzelletta del secolo!

“Forse riesci a venderla a 2000, non ha i documenti e nemmeno la vendono qui in Brasile! Qui la fanno 150, non l’avevo mai vista 125”

Ha ragione …

“Vedrai che adesso andrà molto meglio, aveva una guarnizione del carburatore rovinata!”

Effettivamente la moto non è mai andata così bene! Gonfio le gomme per la prima volta da quando le avevo regolate a mano a Uyuni, in Bolivia, con i due ragazzi svizzeri in viaggio per il mondo.

Torno in albergo e faccio un giro in centro con Caterina.

Sao Luis è bella, con il fascino coloniale decadente. Non ci sono particolari luoghi da vedere, ma solo l’atmosfera tranquilla da assaporare tra bei palazzi da restaurare, qualche tranquilla piazza ben tenuta e ampi panorami sul mare.

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Tornando in albergo compriamo un cuscino per addolcire la dura sella della Pollita.

Usciamo di nuovo che sono le 18:30. In ritardo di 30 minuti sull’appuntamento preso con Francisco, avvocato brasiliano sulla 50ina con cui ci siamo messi a chiacchierare ieri notte, nell’uscita notturna fatta prima di andare a dormire, per assaporare la città.

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E’ seduto che ci aspetta al ristorante, come promesso. Parla con Arnaud, francese trasferitosi qui da molti anni. Ci racconta che il ristorante dove siamo seduti fino a due anni fa era suo. Poi ha divorziato dalla moglie brasiliana che si è tenuta tutto.

Chiacchieriamo del viaggio, del Brasile, dell’Europa e di molto altro, alternando francese, portoghese e spagnolo. Nel frattempo ceniamo e chiudiamo la serata con un breve passeggiata.

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Domani si parte, inizia la nostra vacanza insieme! 🙂

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L’incontro (?)

Mi sveglio presto, in un lago di sudore. La medicina almeno da questo punto di vista ha fatto effetto.

Faccio colazione con frutta e succo di guayaba. Una cosa che ho notato in Brasile è che più o meno in tutti gli alberghi danno la colazione, a prescindere dal costo e l’acqua potabile si trova gratuita quasi ovunque: nei corridoi degli alberghi, negli uffici, sulla barca, ecc. Molto civile.

Prendo una nuova dose di medicina e resto un paio d’ore a riposarmi, a far lavorare il medicinale e ad aggiornare il blog, poi parto.

Mancano ancora 250 km per Sao Luis, speravo meno!!

La strada è più interessante di ieri, che era solo campagna molto simile alla nostra. Oggi ci sono più palme e spazi ampi, coinvolgenti.

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Sarà l’influenza che ancora porto addosso, sarà l’impazienza di rivedere Caterina, sarà la Pollita che oggi sembra andare male, ma sono insofferente, mi muovo in continuazione facendo acrobazie sulla sella, non vedo l’ora di arrivare!

Pranzo verso le 15, quando trovo il chiosco che fa per me, cioè con pannocchie abbrustolite e agua de coco! Una bella pannocchia e due agua belle fresche e sono di nuovo in sella per gli ultimi km prima di Sao Luis.

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L’ingresso in città è veloce, trovo l’aeroporto dove più tardi andrò a prendere Caterina e a due passi la Honda, dove domani mattina vorrei portare la Pollita per il tagliando dei 16mila, un po’ in anticipo, ma voglio farle rivedere la carburazione e mettere una piastra sul portapacchi dove poter legare la sacca a cilindro. Sono davvero curioso di vedere come si comporterà con due passeggeri!!

Trovo la posada che ha prenotato Caterina nei giorni scorsi e rivedo profondamente il bagaglio. Finalmente posso liberarmi dei vestiti invernali e qualcosa d’inutile che non avevo lasciato a Lima! Domani li spedisco a Rio da dei nostri amici, per far spazio ai vestiti di Caterina. Mi accorgo che tutti i documenti e i fogli che porto dietro da due mesi, proprio adesso che mi servono, si sono rovinati con l’acqua terribile che ho preso ieri, bene!

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Doccia, barba, lenti a contatto, tutto come se fosse il primo appuntamento … ora manca solo lei! 🙂

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Sulla nave per Belem, TERRAAAA!! (giorno 5)

Risveglio pessimo, sto male. Ai sintomi dell’influenza, iniziati ieri pomeriggio, si aggiunge il mal di mare. Da alcune ore la nave si muove molto, il fiume è mosso, probabilmente siamo nella baia che precede Belem.

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Non riesco ad alzarmi, tra l’altro ieri ho saltato pranzo e cena. Per fortuna verso le 7 viene a bussare Luz, una donna brasiliana con cui ho parlato un po’ ieri pomeriggio. In spagnolo, fortunatamente, visto che ha vissuto per cinque anni in Venezuela; il portoghese continua a restare incomprensibile, ma non mi sto impegnando molto a dire la verità.
Aveva visto che stavo poco bene e, non vedendomi, è venuta a sentire come sto. MALE, la risposta!
Rimedia delle medicine da Jan, uno dei due australiani e va a prendermi qualcosa da mangiare e dell’acqua.

Dopo un paio d’ore mi sento meglio per l’effetto delle medicine, ho un’influenza in corso, sicuramente colpa dell’aria condizionata fissa a 18 gradi che alla fine mi ha stroncato.

Belem si presenta con un profilo di grattacieli moderni che svettano sullo sfondo, mentre in primo piano si affacciano case più piccole e le tipiche strutture del porto.

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Per fortuna il piano della nave dove sono caricate le merci, tra cui la Pollita, è a livello del molo, riesco ad uscire senza l’aiuto di nessuno, a parte due che mettono una pedana di fronte ad un gradino altissimo.

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Non so se si aspettano qualche reais, ma per aver messo a terra una pedana, che dovrei dargli? Con questa domanda in testa, ringrazio, saluto e prendo il volo con la Pollita.

Prendo la statale che porta verso Sao Luis. L’obiettivo è fare più km possibile, per arrivare presto domani a Sao Luis e sbrigare un po’ di faccende: tagliando alla moto, montare una tavoletta di legno sul portapacchi per sistemare la sacca a cilindro, visto che da adesso saremo in due, spedire i vestiti invernali dai nostri amici a Rio per far spazio alle cose di Caterina ecc.

In una sosta per agua de coco, vedo sfrecciare una moto carica, sono sicuro che era Hans.

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Il cielo è pessimo. Attraverso tre muri d’acqua, con valanghe di piogge che mi inzuppano e un temporale normale. Quattro bagnate e asciugate consecutive. Non l’ideale per uno che sta male. Per la giacca sono a posto, visto che ho la cerata, ma i pantaloni non li ho più dal Venezuela, sento l’acqua che entra ovunque, dalle mutande agli stivali.

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Le ore passano, soffro ma non voglio fermarmi perchè so che domani starò ancora peggio e voglio arrivare a Sao Luis. Mi sento il viso in fiamme, soprattutto le guance, gli occhi mi bruciano e ho dolori a collo e schiena. Sicuramente ho la febbre.

Lungo la strada infinita, per occupare la mente fantastico su quello che vorrei trovare: un albergo con internet per mandare qualche messaggio, un ristorante per mangiare qualcosa, visto che di nuovo sono digiuno da stamattina ed una farmacia per prendere qualche medicina, visto che le mie sono sepolte nella sacca a cilindro e la sola idea di doverla aprire mi deprime ulteriormente.

Poco prima di arrivare, la Pollita compie i 15mila km. Ripenso agli inizi, ai primi 1000 km in Cile e a tutta la strada fatta!

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Resisto fino a Santa Ines a 200 km da Sao Luis. Arrivo verso le 20, l’ultima ora la guido al buio. Questa prima esperienza è positiva, i brasiliani sono assolutamente normali con gli abbaglianti: li usano solo se servono e li tolgono quando ti incrociano e in giro trovi solo qualche bicicletta, auto e camion, niente veicoli esotici come carretti, animali o altro.

Entro dentro Santa Ines e dopo un paio di km vedo: un albergo con ben pubblicizzato il wifi, un chiosco per i panini alla sua sinistra e una farmacia alla sua destra. I miracoli esistono, mi dico. Grazie Signore!!!

Salgo in camera e mi provo la febbre. Il termometro misura un robusto 38,4, ottimo!! Scendo per un panino poi mi sparo una specie di Tachiflu che ho comprato in farmacia e inizio la mia sudata infilandomi nel letto alle 22.

Chissà se domani riuscirò ad arrivare a Sao Luis da Caterina!

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Sulla nave per Belem, in attesa (giorno 4)

Oggi faccio colazione nella mensa della nave. Le mie scorte per il mattino sono sufficienti per una sola colazione e se domani arriviamo presto, preferisco usarle in quel momento, in modo da scendere il prima possibile dalla nave.

Nella mensa incontro i due australiani e poco dopo arrivano i belgi. Tutti abbiamo la mente rivolta a Belem. La navigazione è bella, il paesaggio vario, abbiamo fatto diverse conoscenze, ma dopo tre giorni tutti desideriamo scendere a terra.

Sulla nave, villaggio in miniatura, non poteva mancare il pazzerello. Il nostro è un uomo di circa 40 anni, magrissimo, che parla da solo in continuazione e che prova ad attaccare bottone con tutti, senza ricevere attenzione. In linea di massima mi piacciono queste persone perché spesso dicono cose non banali, però questo è piuttosto molesto e soprattutto non capisco una parola di quello che borbotta per cui di solito lo evito senza farmi problemi.
Durante la colazione uno dei passeggeri che dorme nelle amache ci racconta che ieri notte il pazzerello pare abbia provato a buttare nell’acqua uno dei bambini che scorazzano sulla nave e che quindi sia stato legato ad una ringhiera del traghetto. Stamattina è in giro come se niente fosse, parlando da solo come sempre.

Verso metà mattinata raggiungiamo una zona del fiume dove si vedono delle case, per lo più baracche, sparse sulle sponde. Non un vero villaggio, solo case a dividersi la terra. Di fronte, molte barchette e canoe con, prevalentemente, donne e bambini. I bambini agitano le braccia tutti nella stessa maniera: braccia leggermente piegate che alzano e abbassano molto velocemente mentre lanciano delle brevi grida.
Dalla nave qualcuno lancia in direzione delle canoe dei sacchetti con dentro dei viveri. Gli australiani mi dicono che in albergo a Manaus li avevano avvisati di portare cioccolata, caramelle ed altri cibi da dare in questa zona molto povera.

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Oggi siamo oggetto di frequenti abbordaggi: piccole imbarcazioni, a volte a motore, a volte solo a remi, si avvicinano alla nave, vengono legate agli pneumatici sulle fiancate e i bambini e i ragazzi salgono velocemente a bordo. A volte a vendere qualcosa, molto più spesso semplicemente a chiedere soldi. Dopo un po’, si slegano e tornano alle loro abitazioni.

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Le capanne e le case sulle rive spesso sfoggiano delle parabole satellitari, alimentate molto probabilmente con dei generatori visto che di corrente elettrica non c’è traccia.

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Verso metà giornata inizio a peggiorare con il raffreddore: l’aria condizionata della cabina e le docce senza asciugarmi i capelli hanno fatto effetto. Rimedio un paio di pastiglie per l’influenza e torno in cabina, uscendo solo per scattare qualche fotografia e prendere un po’ d’aria. Ecco cosa poteva ancora accadere prima dell’incontro con Caterina: ammalarmi!!

Il tramonto arriva mentre siamo fermi nell’ennesima cittadina. Anche oggi, l’oscurità è squarciata da frequenti lampi, chissà se ci sarà tempesta stanotte.

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Il quarto giorno ormai è passato, non resta che sperare di arrivare presto domani mattina per avvicinarmi il più possibile a São Luis!

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Sulla nave per Belem, a Santarem (giorno 3)

La nave sobbalza, sembra sbattere contro qualcosa. Tre, quattro, cinque volte, chissà forse dieci e alla fine mi sveglio.

Siamo fermi, è notte ma non so l’ora perché il telefono è fuori uso e non ho un altro orologio sotto mano.

Mi riaddormento, ma nuovi colpi, stavolta alle porte delle cabine, mi svegliano.

Sono le 5:30, siamo fermi nel porto di Santarem. Torno a letto, non ce la faccio ad alzarmi.

Alle 8 dichiaro iniziata la giornata. Incontro gli altri, cioè i due franco-belgi e la coppia australiana e scendiamo a terra, è prevista una sosta di 3 ore.

Santarem è pulita e ordinata con qualche palazzo coloniale per lo più in condizioni precarie. Ma è piacevole con un bel lungofiume con dei locali dove bere qualcosa. Ne approfitto per farmi un bel succo energetico di guaranà.

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Cerco prima un internet cafè da cui mandare un’email per avvisare che non ho più il telefono, poi vado a caccia della batteria, hai visto mai che la trovo e il telefono riprende a funzionare!
Faccio un giro nella bella piazza con alcuni alberi monumentali sotto i quali sono allineate decine di bancarelle e su cui si affaccia la chiesa di un improbabile azzurro.

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Giro diversi negozi di cellulari senza trovare nulla, poi trovo un’assistenza di iPhone, Blackberry e Android e … bingo!! Hanno la batteria. Non ho pensato a portare il telefono per provarla subito, comunque la compro a scatola chiusa, la spesa è minima,15 euro.

Torno di corsa alla nave, non manca molto alla ripartenza fissata alle 11.

Il paesaggio cambia aspetto, diventa in un certo senso più tropicale, selvaggio, la vegetazione sembra più verde, o forse è solo un effetto della luce. I piccoli villaggi che si incontrano sono poveri, ma dignitosi, non si vede mai la miseria che toglie il fiato. Lungo le sponde si vedono molte barche di pescatori.

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Il pomeriggio trascorre lentamente fino al crepuscolo, quando la luce diventa più calda, intima. Per quanto il concetto di “intimo” mal si addica ad una vastità così incredibile.
Mi siedo ad osservare il paesaggio che lentamente mi entra dentro, mi cattura. Per chi, come me, ha una formazione scientifica e razionale, non è facile credere in Dio. Ma è altrettanto o forse più difficile non crederci soprattutto di fronte a spettacoli unici e grandiosi come questo.

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Sento anche che la prima parte del viaggio, quella più avventurosa, è ormai finita. Ripercorro con nostalgia i giorni della Bolivia, molto duri ma incredibilmente emozionanti e memorabili, così come ripenso al Perù, che ho amato moltissimo e che vorrei ancora girare per conoscerlo meglio, ma con più calma.

Con questo viaggio ho avuto la determinazione e la fortuna di poter vivere una breve parentesi di libertà dalla normale vita quotidiana, anche se ovviamente si tratta di una libertà “limitata”, avendo comunque i pensieri alle persone care che costellano la mia vita (amore, famiglia, amici), al lavoro, all’amata casa.
Ma una libertà “completa” implicherebbe l’assenza di questi legami e non la vorrei per nulla al mondo.
Penso ad esempio ad Hans, che sta viaggiando per il mondo da alcuni anni. Fantastico, ma l’essere sempre straniero in terra straniera, non aver nessuno non dico con cui condividere, ma quanto meno comunicare le proprie emozioni né qualcuno che ti aspetta a casa, non mi sembra attraente.

Rifletto e ammiro il tramonto seduto accanto a due ragazze che giocano con i loro figli; sono giovanissime, intorno ai 20 anni. In Brasile è molto comune avere figli in giovanissima età, dai 16 anni in poi.

Scivoliamo su un mondo di acqua e alberi, schivando le isole galleggianti che si trovano un po’ ovunque, fatte di piante acquatiche che si aggregano fino a formare veri e propri isolotti. Il “componente base” è una pianta acquatica che si stabilizza con le radici ma soprattutto con le foglie morte, lasciando quelle vive a prendere la luce e l’aria. Si uniscono tra loro, poi sopra si deposita un po’ di terra, cresce l’erba e altre piante fino a formare degli isolotti dall’aspetto resistente.

Il giorno termina lasciando intuire un nuovo nubifragio nell’entroterra, si vedono fulmini saettare nelle tenebre.

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Sulla nave per Belem, senza telefono (giorno 2)

E’ un classico: se la sera prima vado a letto presto, poi mi sveglio nel cuore della notte.

Sono le 3 quando apro gli occhi. Accendo la luce della cabina e trovo il telefono che nuota in due dita d’acqua. Non ho capito se arriva dal condizionatore o da qualche altra parte.
Ieri avevo visto che gocciolava e non gli avevo dato importanza, comunque sia ora ho un problema. Con Caterina non ci siamo messi d’accordo sull’albergo in cui incontrarci a Sao Louis né sull’orario o se devo andare a prenderla all’aeroporto. E adesso che sono senza telefono, le cose si complicano.

Lo smonto per il poco che si riesce e lo asciugo. Tiro fuori la bustina di sale anti-umidità che è in fondo alla borsa da serbatoio e lo appoggio sopra.
Non provo ad accenderlo perché so che è peggio, bisogna prima farlo asciugare alla perfezione.

Mi rimetto a letto, ma ormai il sonno è andato! Alla fine comunque mi riaddormento.

Mi risveglio poco prima delle 6, con la nave scossa dalle onde e il frastuono di un temporale tropicale, con tanto di tuoni che sembrano circondare la nave da tanto sono vicini e potenti. La pioggia entra dalle fessure della porta.
Mi affaccio dalla cabina e vedo che hanno tirato giù i tendoni, ma l’acqua è ovunque, anche perché tira un vento molto forte. Ringrazio una volta di più di aver preso la cabina invece dell’amaca.
L’orizzonte si perde nella nebbia creata dalla pioggia che cade. Torno in stanza e mi rimetto a letto.

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La terza sveglia è alle 8. Stavolta è abbastanza tardi per fare rumore: accendo l’asciugacapelli che per fortuna ho portato in cabina e lo punto sul telefono per almeno due ore. Vedo la condensa che si forma poi lentamente sparisce.

A metà mattina provo ad accenderlo. Nulla, però sullo schermo compare il simbolo della batteria con una croce rossa sopra. Forse è solo la batteria, speriamo!
Rimango a poltrire e a scrivere in cabina, poi vado a pranzo.
Mentre mangio, attracchiamo in una cittadina che sembra carina, con una piccola chiesa e le case abbastanza curate.

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Incontro i due francesi che vivono in Belgio, gli racconto la disavventura e mi propongono di usare il loro telefono, visto che la SIM non si dovrebbe essere rovinata con l’acqua.
Invio un messaggio a Caterina chiedendole di mandarmi le indicazioni e l’orario, poi poltrisco di nuovo in cabina.

A metà pomeriggio ci fermiamo in un’altra città.

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Il molo è affollato di venditori che propongono in gran parte cibo.

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Il fiume è immenso, continua a stupirmi la sua vastità.

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E’ solcato da ogni tipo di imbarcazione: dal mercantile carico di container, alla nave passeggeri, all’aliscafo, alle tante, minuscole barche di pescatori che restano sottocosta.

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Torno in stanza, deciso a non cenare per smaltire i biscotti che ho mangiato nel pomeggio.

Verso le 19 attracchiamo a Obidos. Piove e in breve si trasforma in un nubifragio, con un vento fortissimo.
E’ incredibile la quantità d’acqua rovesciata dal cielo! Questo lampeggia in continuazione lungo tutto l’orizzonte, siamo sovrastati dalle nubi. Solo lampi che si susseguono veloci, senza tuoni, tranne qualche raro rombo che rotola sopra le nostre teste e si perde lontano.
Improvvisamente un lampo cade vicinissimo alla nave, in un’esplosione incredibilmente forte che fa sobbalzare metà dei passeggeri. Peccato non aver visto il punto in cui è caduto.

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E il secondo giorno di navigazione è passato, ne mancano tre!

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Sulla nave per Belem, con apprensione (giorno 1)

Mi sveglio presto per finire i bagagli. Trovo Joel che fa colazione, siamo nello stesso albergo, ma prima della gita nella giungla non ci eravamo mai incontrati.

Tom telefona per confermare l’appuntamento. Meno male!

Finite le ultime cose, saluto Joel e gli auguro tutto il meglio per il suo viaggio a New York e il suo rientro “per sempre fino al prossimo viaggio” in Francia.

Mi faccio accompagnare da Tom al bancomat per prelevare un po’ di soldi, poi torno nella pensione, dov’è parcheggiata la moto. Foto di rito con Tom, poi provo ad accendere la Pollita.

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E’ rimasta ferma qualche giorno, fatica molto a partire, anche con l’aria tirata. E quando parte, si spegne quasi subito.
Mi chiedo se sia dovuto al lavaggio che ha fatto il ragazzo dell’albergo, che magari ha mandato l’acqua da qualche parte, oppure c’è qualche altro motivo. Di sicuro quando sono arrivato a Manaus era ok!

Seguo Tom che cammina verso il porto. La moto continua a non avere potenza e non appena provo ad accelerare, si spegne. Questo anche dopo dieci minuti di guida nel caldo tropicale di Manaus.

Non voglio preoccuparmi, ci penserò quando arriverò a Belem.

Arriviamo al porto e di nuovo provano ad abbordarmi un po’ di persone per vendermi il biglietto per il traghetto. Ci pensa Tom ad allontanarli a dovere.
Continuo a seguirlo, mi porta ad uno dei mille chioschetti sul lungofiume che vendono biglietti. Un po’ come avevo fatto io il primo giorno. Sicuramente si sono messi d’accordo, una parte per Tom e il resto al venditore.

“Da adesso devi seguire lui, capito?”, mi dice Tom indicando il grasso uomo seduto dietro al banchetto, “io vado, ci pensa lui a dirti quando salire e cosa devi fare, ciao e in bocca al lupo!”

“Ciao Tom, grazie di tutto!”, lo saluto pensando che alla fine è un bravo ragazzo, giusto un po’ furbetto.

Nell’attesa che la mia nuova guida mi dica cosa fare, conosco due attempati signori australiani, che vogliono provare l’ebbrezza della navigazione sul Rio delle Amazzoni.
Finalmente il tipo mi dice che posso entrare nel porto.

Il primo controllo mi chiede se ho tutti i documenti e mi fa passare in un attimo.
Il secondo controllo mi chiede tutti i documenti della moto e i miei. Controlla il libretto, vede il nome di Nicola, poi apre il passaporto e vede il mio. Inizia a confabulare con un collega scuotendo la testa.

Non posso crederci, fino a oggi nessuno ha detto nulla e adesso, nel porto di Manaus, nella tratta più facile del viaggio fino a Belem, fanno problemi?!

“Qui il nome è diverso, di chi è questa moto?”

Gli spiego tutta la storia, ma non so quanto capisce visto che non parla spagnolo.

“E’ un parente?”

“No, un amico”

Scuote la testa, “non hai un documento che dice che puoi guidare questa moto?”

Gli dò il documento fatto dal notaio a Concepcion ormai due mesi fa, mentre mi dico che non può essere vero!!

“Sì ma non è autenticato, non è valido!”, esclama con una faccia quasi schifata.

A stento mantengo una parvenza di calma, continuo a non credere a quello che sta avvenendo.

“E’ autentico, ci sto viaggiando da due mesi in tutto il Sud America, sono arrivato fin qui, mi hanno fatto entrare dal Venezuela, guarda il timbro sul passaporto!”

Sembra pensarci, ma soprattutto lo convincono le decine di macchine ferme che attendono di entrare nel porto, che iniziano a suonare.

Davvero non riesco a crederci, è proprio vero che quando meno te l’aspetti, accadono le cose.

Dopo lunghi secondi il tipo, nemmeno capisco se è un militare, un doganiere o chissà cos’altro, borbotta qualcosa e compila un foglietto per farmi entrare nell’area portuale.

Afferro il foglietto ed entro, con la moto che si spegne tre volte per percorrere i pochi metri fino alla nave.

Tre tipi, appena mi vedono arrivare, letteralmente mi corrono dietro. Si offrono per caricare la moto sulla nave che non è attrezzata a trasportare veicoli. Tutto deve essere caricato a mano attraverso la piccola apertura parecchio più in basso del piano stradale.

La Pollita per fortuna è snella, in pochi secondi è a bordo.

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“Cinquanta reais”, mi chiede il portavoce dei tre.

“Ve ne dò trenta e fateveli bastare!”, gli rispondo in italiano che, forse aiutati dalla mia faccia alterata, sembrano capire bene.

Ho appena finito di caricare la moto che arriva un ragazzo. Penso che sia della nave, anche se non ha uniforme.

“Hai il biglietto per la moto?”

“Certo, eccolo!” e gli passo il foglietto.

Lo guarda, lo gira, lo rigira, ma sembra non andare bene:

“Quanto hai pagato per portare la moto?”

“Non lo so, ho comprato tutto insieme, cabina e moto, ma che differenza fa?? C’è scritto moto, quindi ho pagato per portarla!” Non voglio dirgli quanto ho pagato, magari mi chiede una differenza.

Non l’ho convinto o forse non ha capito quello che gli ho detto in spagnolo e insiste:

“Quanto hai pagato per la moto??”

Gli ripeto il concetto e lui ancora mi fa la stessa domanda. Inizio a innervosirmi perché mi sto accorgendo che in Brasile cercano di fregarti sempre e comunque e anche lui si sta innervosendo, forse perchè vede che faccio resistenza o perchè davvero c’è qualcosa che non torna.

Arriva provvidenzialmente la mia nuova guida, che chiede al tipo cosa c’è che non va. Si spiegano in portoghese, purtroppo non capisco un accidenti di cosa si dicono, fatto sta che il tipo sparisce.
La mia guida invece, mi dice di aspettare dove mi trovo mentre va a cercare la cabina per me.

Resto a guardare mentre legano la moto, poi torna una decina di minuti torna con una chiave.

“Vai, è la numero 2, nel piano di mezzo”

Salgo e trovo una cabina microscopica, però ha il bagno e soprattutto l’aria condizionata. E per ora sono da solo, spero di restarci!

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Faccio la conoscenza di una coppia di francesi che vivono in Belgio, poi ritrovo gli australiani. La nave è piccola, penso che sarà facile conoscere i passeggeri.
Intanto le persone con l’amaca iniziano a stenderle in un intreccio multicolore incredibile, una attaccata all’altra coi bagagli ammucchiati dove capita.

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Si fanno le 12, ora di partenza a quanto mi avevano detto. Alle 13 vado in cabina per riposarmi, alle 14 faccio un giro, alle 15 vado a chiacchierare con i miei nuovi amici, alle 16 inizio a perdere le speranze che mai partiremo.
Gli unici ad agitarsi sono gli “occidentali”; i brasiliani sono tranquillissimi:parlano, bevono, dormono.
Alle 16:30 finalmente ci muoviamo. Ci stacchiamo dalla banchina ed esultiamo per l’inizio del viaggio.

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Dura poco. Vedo arrivare sulla banchina una macchina bianca, che inchioda proprio di fronte al posto della nave, lontana già una decina di metri. Fa dei gesti verso la nave, indica il passeggero e qualcos’altro.
La nave torna verso la banchina, ma non attracca nuovamente, piuttosto punta la nave che era ancorata dietro. Lentamente, ci si appoggia contro. Dal parapetto della prima nave, vedo che sale il passeggero dell’auto bianca, poi iniziano a passarsi dei sacchi pieni di non so cosa, ma sembrano abbastanza pesanti.

Ci stacchiamo di nuovo, forse stavolta ci siamo. Motori alla massima potenza, ma di nuovo per pochi secondi. Rallentiamo nuovamente, mentre vedo un motoscafo che si stacca dal molo e raggiunge la nostra nave.
Si accosta, sale un ragazzo con un grosso zaino.

Motori di nuovo al massimo, puntiamo il centro del fiume.

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Sfiliamo lungo la città e la sua periferia. Ci sono diversi pontili con le pompe di benzina, sono i benzinai del fiume.

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Il porto è enorme, deve portare una quantità notevole di merci, visto che tante aziende producono qui: Honda, Yamaha, e le altre marche di moto, auto e altro ancora. Questa è zona franca, pagano molte meno tasse, per le aziende è vantaggioso venire qui.

Navighiamo ormai da mezz’ora e la città inizia ad allontanarsi, quando la nave rallenta ancora. Un motoscafo ci raggiunge, salgono altre due persone!

Mi chiedo se, venendo direttamente al porto venerdì scorso, non avrei trovato qualcuno che mi portava fino alla nave!!

E’ quasi il tramonto quando raggiungiamo il punto in cui il Rio Negro si incontra col Rio Solimões. E’ incredibile vedere come le acque del Rio Negro lottino per entrare in quelle del Rio Solimões, restando separate molto a lungo.

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Dopo qualche centinaio di metri la fusione è completata: siamo nel Rio delle Amazzoni!

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Il tramonto è offuscato da molte nubi all’orizzonte, cena veloce e crollo a letto alle 21. I prossimi giorni si prevedono di riposo assoluto!

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Nella foresta, tra delfini e piantagioni

Mi sveglio nel cuore della notte, madido di sudore. Non si respira.

Dalla finestra spalancata vedo dei bagliori, mi affaccio. All’orizzonte, all’altezza di Manaus, c’è un enorme cumulo di nubi dentro le quali rilucono continuamente dei lampi. Il tutto, nel più completo silenzio, non un singolo tuono.

Ammiro lo spettacolo per qualche minuto, poi rientro nel forno.

Mi alzo alle 7 per una veloce colazione, poi usciamo per andare dai delfini. Scherzo con Joshua dicendo che i delfini rosa non esistono e sta inventando tutto, bombe comprese!

Prima di lasciare il lodge, Joshua ci chiede se preferiamo andare in un villaggio tradizionale per vedere le colture, lo stile di vita e tutto il resto, oppure in una piccola comunità indio, dove possiamo conoscere la vita dei discendenti dei primi abitanti della foresta. Esperienza, a suo dire, molto più interessante e unica.
La prima visita è quella inclusa nel pacchetto, per la seconda invece c’è un piccolo extra di 25 reais (8 euro scarsi), “che viene versato interamente agli indio per aiutarli”, precisa Joshua.
Richard, Joel ed io siamo per gli indio, le quattro francesi per il villaggio tradizionale. Le menerei.

Arriviamo alla piattaforma dei delfini che è ancora molto presto, svegliamo tutti. Lo stesso ragazzo di ieri si immerge nell’acqua e comincia ad agitare l’acqua con le mani ed a fare altri rumori.
Oggi però nel giro di pochi minuti l’acqua inizia ad incresparsi. Stanno arrivando!

Inizia a giocarci tenendo in mano, fuori dall’acqua, dei tranci di pesce, per farli saltare.
Ci immergiamo e nuotiamo intorno al ragazzo, cercando di toccare i delfini. Sono lisci e morbidi, per nulla spaventati dall’uomo. Uno in particolare è davvero docile, si lascia praticamente abbracciare!

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Ci dice Joshua che in questa parte di fiume ci sono una quindicina di delfini e quattro di questi sono docili come quello che stiamo accarezzando.

“Oggi ce n’è solo uno, ma di solito sono quattro. Qui portano anche dei bambini, per fare la terapia con i delfini, sono buonissimi!”

E’ emozionante vedere questi cetacei così grande nuotarci intorno, giocare tra le nostre gambe, farsi toccare senza la minima paura! Restiamo in acqua a lungo, mi sento come uno dei bambini che viene a fare la terapia!
Arriva una coppia di brasiliani di mezza età su un’altra barca e Joshua ci chiede di uscire perché siamo rimasti in acqua più del dovuto e ora tocca ai nuovi arrivati.

Risaliamo in barca per andare nel villaggio tradizionale. Che poi è il villaggio in cui vive Joshua e dove sta costruendo una casetta che dovrebbe essere finita per dicembre; andrà a viverci con la sua fidanzata. Ci sono anche una chiesa e una scuola.

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Ci mostra molte piante da frutto, ora senza frutti perché non è stagione, ci spiega da cosa e come si ricava la farina di manioca e ci illustra la semplice vita del villaggio, in completa comunione con la natura ed i suoi ritmi e cambiamenti.

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A proposito di cambiamenti, ci dice che fino al 2009 l’acqua non era mai arrivata così in alto. Prima del 2009, dove siamo appena passati con la barca, era sempre asciutto, tranne un piccolo torrente e il livello dell’acqua non cambiava di molto tra il periodo secco e quello delle piogge.
Dal 2009 in poi, invece, ogni anno l’acqua sale di molti metri, allagando tutto, per poi scendere di molti metri, facendo essiccare la terra.

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“Il cambiamento climatico è arrivato anche qui e ora le gente deve adattarsi a queste variazioni di livello! Infatti tutti stanno costruendo nuove case su palafitte, perché le vecchie vengono sommerse e distrutte!”

Anche il clima è globalizzato, nel senso che ovunque sta cambiando, portando sempre tragiche conseguenze.

Torniamo verso il lodge e Joshua ci chiede se vogliamo fare un bagno nel fiume aperto oppure tornare direttamente nel lodge. Joel ed io vorremmo fare un bagno, perché dal lodge è complicato scendere in acqua. Le quattro francesi vogliono tornare al lodge a far nulla. Le menerei sempre più.

Arrivati al lodge, faccio un bagno veloce sfilando tra le piante che crescono vicino la riva, poi pranziamo, tanto per cambiare con pesce fritto, riso in bianco e fagioli.
Arriva con una barca la persona che mi era venuto a prendere due giorni fa in albergo per venire qui, è con due signore sulla cinquantina.

Inizio a parlare con una, la saluto in spagnolo perché ancora non ho imparato nulla di portoghese (e nemmeno ho provato) e anche lei risponde in spagnolo. E’ di Lima! Sono così felice di parlare nuovamente in spagnolo, anche lei è contenta di poter parlare nella sua lingua. Lavora qui da molti anni, è venuta a seguito della sua famiglia quando in Perù c’era la crisi. E si è fermata anche se non ama il posto, è stufa. Però c’è lavoro e soprattutto è elastico, quando vuole fermarsi per uno o più mesi, può farlo senza problemi.

Parliamo del più e del meno sia al lodge che durante il tragitto per tornare a Manaus, prima in barca poi in macchina. Infatti torna anche lei con me e Joel. Saluto le simpatiche francesi, rimaste sole visto che Richard è ripartito in mattinata.

Il ritorno riserva una sorpresa. Il passaggio in auto è solo fino ad un molo:

“Salite su quella barca, tra 10 minuti parte e in 20 minuti arriva nel porto di Manaus. E’ molto più veloce dell’auto, il biglietto è già pagato e trovate Tom ad aspettarvi fuori dal porto.”

Nell’attesa che la barca, più un motoscafo in realtà, parta, osservo la vita in questa parte di città.

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Ci sono alcuni bambini che pescano e bighellonano vicino ai pescatori, altre persone sul molo. Una vita lenta, tranquilla.
Il bambino che pesca a fianco della nostra barca cattura un pesce! Condivide la gioia con un amichetto, fanno qualche tuffo dal molo, provano ancora un paio di volte a pescare, poi arriva un sorveglianti a cacciarli.

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Il motoscafo parte e ci porta fin nel cuore di Manaus, al porto galleggiante.
Entrando nel porto, vedo una barca abbastanza malconcia e piccola. Leggo il nome sulla prua: Nelio Correa, una delle barche che va a Belem.

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Fuori però non troviamo Tom, ma il fratello. Gli chiedo come torniamo in albergo, che è vicino ma non troppo. Io ho due piaghe sotto i piedi e Joel un bagaglio molto pesante. L’unica possibilità è in taxi.

Chiedo per tre volte al fratello di Tom di farsi dire quanto viene il tragitto fino all’albergo, ma non mi risponde, pensa solo a prendere il primo taxi libero. Evidentemente anche lui non vuole tornare a piedi.

Finalmente ne trova uno, saliamo mentre Joel dice che vuole farla a piedi. So che mi sto infilando in un problema, ma non mi va di tornare a piedi.

Arrivati di fronte alla pensione, il fratello di Tom scende e mi dice di pagare la corsa, 10 reais. Reagisco dicendo che non voglio pagare, che ho preso un tour di 3 giorni da 450 reais e vorrei essere riportato dove sono stato prelevato il primo giorno. Ne nasce una discussione, come immaginavo, che alla fine tronchiamo facendo a metà, 5 lui, 5 io.

Vedo Tom, allegro come sempre, che mi dice che ha trovato la cabina.

“Allora, 700 la cabina …”

“Mi avevi detto 600 … e ho trovato molti lungo il molo che mi offrivano la cabina a 600!”

“No 700 ti avevo detto!”, prova a ribattere.

Continuiamo così per un paio di volte, poi accetta 600.

“Quindi, 600 la cabina e 150 la moto, totale 750”

“Ok, ma devo prelevare, non ho tutti questi soldi”

Mi accompagna di nuovo il fratello che nel frattempo si è calmato; prelevo e pago Tom che mi dà il biglietto, leggo il nome della nave: Nelio Correa! Mi metto d’accordo con Tom per andare domani mattina al porto, poi vado a riposarmi in albergo e a preparare i bagagli.

Esco verso le 21 per cenare, ma trovo tutto chiuso. L’unica è mangiare ad uno dei banchetti che la sera popolano gli angoli delle strade, che cuoce spiedini sopra una piccola brace.

E domani, se Dio vuole, prendo il traghetto per Belem!

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Nella foresta, tra macachi, bradipi e caimani

L’amaca è una tortura.

Senza ombra di dubbio è stata inventata da un sadico per attirare le persone con l’apparente comodità, per poi finirle lentamente tra terribili crampi e orrendi dolori articolari, bloccandole nelle posizioni più assurde e innaturali, col perenne rischio di precipitare a terra nel cuore della notte.

Mi sveglio innumerevoli volte con arti addormentati e doloranti. Arriva l’alba con la sensazione di non aver dormito affatto.

La nottata, comunque, è stata utile. Utile per capire che quattro notti sull’amaca, sul traghetto da Manaus a Belem, potrebbero uccidermi o procurarmi seri problemi deambulatori. La prima telefonata da fare non appena torniamo al lodge è a Tom, per chiedergli assolutamente di prenotare una cabina.

Decido di averne abbastanza pochi minuti prima delle 6 e mi districo dall’amaca. La guida sta accendendo nuovamente il fuoco, mentre anche la foresta si risveglia tra grida di animali e canti di uccelli.

La colazione include un po’ di caffè ed un panino con la frittata. Quando tornerò in Italia credo che non mangerò uova per un bel po’.

Dopo aver smontato e ripulito l’accampamento, le due brasiliane e Richard seguono la guida per andare direttamente sulla spiaggia.

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Il resto della truppa, invece, segue o sarebbe meglio dire, insegue il ragazzo. Che, per l’appunto, adotta un vivace passo da vietkong in missione, obbligandoci ad una marcia forzata nella foresta dove l’unica cosa che riesco a vedere sono i miei piedi per cercare di non inciampare. E non sempre ci riesco.
Avvistamenti, zero. A parte le formiche, che mi ritrovo ovunque a mordermi con foga.

Proviamo a dirgli un paio di volte di rallentare, ma non capisce o non vuole capire. Quando provo a fermarmi per scattare una foto, rischio seriamente di perderli e l’esperienza non sarebbe divertente, perché davvero non avrei idea di dove andare, in quale direzione.

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( Formicaio)

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Sudo nuovamente come una fontana quando finalmente, dopo una quarantina di minuti di questa salutare sgambata degna di Full Metal Jacket (soldato Palla di Lardo!), il ragazzino si ferma chiedendoci se vogliamo proseguire verso l’interno – e indica una poderosa e maschia collina che si innalza vigorosa alla nostra sinistra – oppure tornare mollemente e vigliaccamente sulla spiaggia – e indica con disgusto una blanda discesa verso destra.

La risposta è unanime e scontata. Anche il soldato Palla di Lardo sarebbe stato d’accordo con noi.

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Non appena arrivo sulla spiaggia, madido di sudore, mi getto nel fiume, poi prendo un po’ di sole.

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Le due brasiliane ingollano birra, come al solito.
Le quattro francesi si isolano, come al solito. Sono incredibilmente asociali e chiuse. E’ vero che spesso, quando si viaggia tra amici, si tende a restare all’interno del gruppo, ma queste esagerano davvero. Da ieri avranno scambiato non più di dieci parole con le altre persone.

Fortuna che ci sono Manuel, Carlos, Joel e Crazy Richard, come ho prontamente soprannominato il tipo di Washington, altrimenti avrei passato tre giorni in isolamento.

Chi gioca a pallone, chi chiacchiera, chi si riposa, poi la guida annuncia la fine della siesta. Si torna verso il lodge!

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Vado a salutare le signore amiche della nostra guida e vedo che c’è anche una ragazza con il viso dipinto. E’ una indio. Anche la figlia è decorata con delle linee sul corpo.
Non capisco se è una attrattiva per i turisti. Quando le chiedo se posso scattarle una foto, mi risponde “certo!” e non mi chiede soldi. E’ autentica!

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Le rivolgo qualche domanda in spagnolo e fortunatamente lo capisce perfettamente. E’ colombiana e viene dalla zona del parco Tayrona! Incredibile, com’è piccolo il Sud America 😉

La guida ci spiega che, prima di andare al lodge, proviamo a passare nella zona dei delfini rosa per avvistarli e, chi ha pagato la licenza, per nuotarci assieme e toccarli.

Il fiume oggi è una tavola. La velocità della barchetta non cambia, sempre lentissima, ma almeno non rischiamo di capovolgerci da un momento all’altro.

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( Il profilo di Manaus e del ponte sul Rio Negro a circa 40 km di distanza)

Dopo una mezz’ora arriviamo nella zona dei delfini, che altro non è che la casa galleggiante di una famiglia che ha messo in piedi il business. Non sono pescatori, o almeno non in questo periodo, essendo completamente dedicati ai delfini.
Scopro anche che la “licenza” per nuotare coi delfini, altro non è che il prezzo da pagare alla famiglia per poter usare l’accesso all’acqua dal pontile e, se si è fortunati, a toccare i delfini che vengono a mangiare.

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Due ragazzi della famiglia iniziano a smuovere l’acqua e fare rumori, usando bottiglie vuote, bacinelle e altro che sbattono sull’acqua, ma non arriva nessun delfino, fiume piatto.

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Riesco a capire da uno dei ragazzi che i pescatori stamattina hanno esploso una bomba per catturare più pesci ed i delfini sono andati tutti là a mangiare. Annuisco scettico, mentre Joel si lancia in ricordi in cui dopo la guerra si usava fare così in Francia. Anche in Italia si usava, ma farlo oggi sul Rio delle Amazzoni mi lascia perplesso.

La guida decide di tornare al lodge: ora è inutile attendere, ci riproveremo dopo pranzo.

Il pranzo è identico a ieri: pesce fritto, riso in bianco e fagioli.

I due spagnoli e le due brasiliane ci abbandonano, tornano a Manaus.
Faccio telefonare a Tom, gli chiedo di prenotarmi una cabina, non voglio più l’amaca! Mi comunica che il prezzo per la moto è riuscito a farlo abbassare a 150. Evidentemente dopo che gli ho detto che avevo trovato moto e amaca a 260 reais, s’è convinto a farmi un prezzo meno da ladro. Quindi il prezzo della moto è sceso da 450 a 350 a 150, ottimo!

Fortunatamente nel pomeriggio ci guida Joshua. E’ molto simpatico e parla inglese, almeno riusciamo a comunicare!

Torniamo al pontile dei delfini, ma quando siamo ancora lontani, Joshua adocchia una barca piuttosto grande già attraccata:

“C’è altra gente, quindi gli stanno dando da mangiare. Tra loro e la bomba di stamattina, non avranno più fame, non sarà interessante … Se siete d’accordo, domattina presto andiamo dai delfini, che avranno fame e adesso andiamo nella foresta a cercare qualche animale, ok?”

Non possiamo far altro che fidarci e acconsentiamo all’unanimità.

Joshua devia la barca, puntando dritto verso la boscaglia che, quando siamo a pochi metri, lascia intravedere un passaggio.

Abbandoniamo il fiume aperto infilandoci in uno stretto canale delimitato dal fitto della foresta.

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Gli alberi affondano nell’acqua, è uno spettacolo incredibile. L’acqua è così calma e piatta da fungere da specchio, riflettendo tutto ciò che vi si affaccia: tronchi, rami, foglie. Crea un effetto magico dove il sopra si confonde col sotto e si viene inghiottiti in un paesaggio fiabesco, perdendo i confini tra sogno e realtà.

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Siamo appena entrati nel canale quando sentiamo un boato in lontananza:

“Una bomba … i pescatori hanno tirato un’altra bomba!” esclama Joshua scuotendo la testa desolato.

Il boato era evidente, ma a questo punto a stupirmi non è tanto il fatto che lancino le bombe per pescare, quanto la facilità con cui si procurino l’esplosivo!

Proseguiamo lungo il canale e adesso il silenzio è totale: il motore è spento, noi respiriamo a malapena e la barca scivola sull’acqua spinta dal remo di Joshua che si muove silenzioso. Stiamo tutti col naso per aria a cercare qualche animale, un uccello, un rettile.

Lasciamo anche il canale per infilarci dritti nell’intrico di tronchi. Adesso è tutto un cercare un passaggio tra tronchi caduti e alberi ancora vivi, scostando le liane che pendono dall’alto e le fronde che emergono dall’acqua. Ci muoviamo lentissimi, si odono solo i rumori della foresta: qualche grido di uccello, una foglia che cade nell’acqua, un animale lontano, il vento.

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Metro dopo metro, raggiungiamo un punto in cui sentiamo dei forti rumori in alto, tra le fronde degli alberi. Udiamo dei versi differenti, sono scimmie!

Ci fermiamo, guardando fissi verso l’alto e finalmente iniziamo a vederli: è un branco di macachi, una decina, si muovono tra un ramo e l’altro. Hanno una coda molto lunga, ma il corpo è piccolo, non credevo così piccolo.

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Di tanto in tanto lanciano un grido, due litigano per qualche secondo facendo un baccano d’inferno. Si muovono tra gli alberi finché non li perdiamo di vista.

Joshua decide di cambiare zona. Sempre nel silenzio più totale, torniamo a remi fino al canale, poi da lì al fiume, dove riaccendiamo il motore e, puntando nuovamente sulla riva boscosa, entriamo in un altro canale.

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Lo scenario è identico a prima: silenzio totale, acqua immobile in cui si specchia la foresta, noi col naso per aria a cercare qualche animale.

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Joshua, abituato da sempre alla foresta, avvista un bradipo abbarbicato in cima ad un albero. Dopo avercelo indicato a lungo, alla fine anche noi riusciamo a distinguerlo.
Si avvicina alla base dell’albero e lega la barca:

“E’ molto in alto, non credo di arrivarci, ma provo a prenderlo per farvelo vedere meglio”

Inizia ad arrampicarsi con una agilità incredibile, ma quando è a una decina di metri di altezza, esclama:

“Fottute vespe!”

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C’è un nido di vespe e lo stanno attaccando. Scende veloce, portandosene dietro un paio che continuano a seguirci anche quando, dopo aver slegato la barca, siamo a diversi metri di distanza.

Proseguiamo la nostra ricerca silenziosa, scivolando tra gli alberi e le liane, con la poca luce del sole che filtra tra le foglie, finché non avvista un altro bradipo.
Come prima, lega la barca alla base dell’albero e sale, stavolta però riesce a prenderlo e portarlo giù per farcelo vedere da vicino. E’ una femmina ed ha un piccolo aggrappato al petto. Ci spiega com’è fatta, come vive, le sue abitudini, poi la lasciamo libera e, lentamente come da sua natura, si arrampica allontanandosi.

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Poi vediamo ancora un’iguana, o meglio la vedono le ragazze sedute davanti, perchè fugge immediatamente e chi è seduto dietro come me, non fa in tempo a scorgerla.

Il pomeriggio trascorre così, tra i canali che si addentrano nella foresta, sopraffatti da quest’immensità di alberi e acqua mescolati in un abbraccio come un’unica entità. Di tanto in tanto, qualche incredibile macchia di colore che vola impazzita: farfalle di mille colori, giallo brillante, azzurro blu e nero, rosso.

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Arriva il tramonto che incendia di colori il cielo e l’acqua. Di nuovo ammutoliamo davanti a tanta bellezza.

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Mi stupisce Joshua che, nonostante viva a contatto con la foresta da decenni, gioisce anche lui come noi. Mi consola sapere che ci sono degli spettacoli, come quelli della natura, che non stancano mai.

Si sta spegnendo anche l’ultima luce del crepuscolo, quando vediamo dei delfini che iniziano a saltare e giocare davanti alla barca . C’è anche un piccolo tra loro, si riconosce dalla sagoma minuscola e dalla piccola pinna dorsale che esce dall’acqua.

“Questi sono delfini grigi, molto più difficili da vedere di quelli rosa, siete fortunati!”, ci dice Joshua con soddisfazione.

Ma le emozioni non sono ancora finite!

“Cerco di farvi vedere un caimano, proviamo in un posto che conosco qui vicino. C’è una coppia di caimani che ha avuto da poco un piccolo, cerco di prenderlo”

Ci avviamo nell’oscurità quasi completa. Ogni tanto accende per qualche secondo una torcia, che punta lontano sulle acque per orientarsi tra le cime nere degli alberi sulle sponde, poi la spegne proseguendo la navigazione al buio.

Trova a colpo sicuro l’ennesimo canale ed inizia a puntare la luce nel punto in cui gli alberi entrano nell’acqua:

“I caimani stanno sempre sul filo dell’acqua e li vedi a distanza dagli occhi, che riflettono la luce”.

Non vediamo nulla e Joshua prosegue fino alla riva.

“Siamo su un’isola, scendo a cercare il piccolo. Se lo trovo ve lo porto, altrimenti dobbiamo cambiare posto perchè gli altri caimani che stanno qui li conosco, sono troppo grandi per poterli catturare da solo. Torno tra 20 minuti, non vi preoccupate, chi vuole scendere può farlo, ma deve restare qui sulla spiaggia, oppure restate sulla barca”

L’idea di avere dei caimani che si aggirano nei pressi non è piacevole, però mi stufo di stare sulla barca. Richard ed io siamo gli unici a scendere.
Sfrutto il flash del telefono per cercare degli occhi di caimano nei pressi. Pare tutto sicuro e passeggio brevemente sulla spiaggia. E’ candida e nonostante l’oscurità, si distingue bene nella penombra.
Poco più in là vedo la torcia di Joshua che cerca un caimano da mostrarci. Qualche zanzara cena grazie a me.

Dopo una ventina di minuti torna:

“Nulla, non l’ho trovato e i due adulti che ho visto erano troppo grandi per poterli prendere, erano di un metro e mezzo / due!”

Rabbrividiamo alla sola idea mentre riprendiamo la navigazione.

“Andiamo in un altro posto dove dovremmo trovarne altri”

Di nuovo navighiamo al buio, con Joshua che si orienta puntando la torcia sulla riva, nuovo canale dove entriamo passando tra gli alberi.

Sbuchiamo in un piccolo specchio d’acqua sul quale si affacciano due case, con le luci che si riflettono sulle acque. Stavolta la torcia che punta Joshua sul pelo dell’acqua illumina diversi occhi, grandi come fanali.

“Qui dovremmo trovarne uno piccolo!”, esclama mentre lega la barca ad un tronco.

Stavolta non passa nemmeno un minuto che torna con un cucciolo di pochi centimetri in mano, che prova a morderlo in continuazione:

“Ha quattro mesi al massimo, quindi c’è la mamma nei dintorni! Ve lo faccio vedere rapidamente, poi lo libero”

Ci spiega come respira, come nuota, come caccia, come fa ad aprire la bocca anche sott’acqua, grazie ad una membrana che gli chiude la gola e come mai non attacca sott’acqua, ma solo sul pelo dell’acqua o a terra.

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Libera il piccolo che si allontana nuotando e anche noi riprendiamo le acque. Joshua punta di nuovo la torcia sulla riva opposta e quattro begli occhioni luminosi si accendono ad indicare due caimani adulti.

Faccio appena in tempo a pensare alle persone che abitano nelle due case, affacciate su un laghetto così bello, ma infestato di caimani, che attracchiamo proprio sotto le abitazioni. E’ il nostro lodge!!!

“Joshua, non avevo capito che eravamo al lodge, ma quindi siamo circondati da caimani?!?!”

“Sì ma non preoccuparti, di solito restano vicino l’acqua, si allontanano di pochi metri, tre, massimo cinque metri”

“Qui sono meno di cinque metri!”

“Sì ma è sicuro, non preoccuparti, non sono mai saliti fin qui, hanno paura”

Speriamo che abbiano paura anche stanotte …

Cena a base di pollo, riso in bianco e fagioli, alla faccia della varietà!

Il generatore rimane acceso fino alle 21, il tempo di cenare, ricaricare qualche batteria e fare una doccia, poi piombiamo nell’oscurità.

Siamo tutti provati dalla giornata e soprattutto dall’ultima nottata sull’amaca e rapidamente ognuno si dirige nella sua stanzetta. Rovente e soffocante.

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